Da anni il Governo centrale di Pechino sta cercando di sinizzare la regione dello Xinjiang, impiegando metodi coercitivi come i campi di rieducazione per la minoranza uigura. Ora però la comunità internazionale sta cominciando gradualmente a pressare le Autorità cinesi sull’argomento.
Lo Xinjiang è una regione autonoma cinese nel nord-ovest del Paese, casa di circa 10 milioni di uiguri, una minoranza etnica musulmana di origini turcofone. Si stima che più di un milione e mezzo di queste persone siano rinchiuse in cosiddetti campi di “trasformazione attraverso l’educazione” sparsi per la regione. Queste strutture vengono inquadrate ufficialmente in centri a cui si accede su base volontaria, ma nei quali nessun osservatore esterno è mai stato ammesso per una visita.
Pechino è preoccupata che le idee estremiste e separatiste di parte del popolo uiguro possano rappresentare una minaccia per l’integrità, il Governo e il popolo cinese. Nel 2017 il Governo della regione ha introdotto una legge anti-estremismo che vieta agli uomini di farsi crescere la barba e alle donne di portare il velo in pubblico.
Nonostante le accuse ricevute dal Governo centrale per le violazioni di diritti umani che si verificano all’interno dei campi, Pechino non ha mai arretrato dalla propria posizione. L’organizzazione Human Rights Watch nel 2018 era riuscita a intervistare però alcuni ex detenuti e parenti di detenuti dei campi di rieducazione, pubblicando un report esplicativo delle condizioni di vita di chi ha vissuto in questi centri creati ufficialmente per fermare il terrorismo.
Fig. 1 – Manifestazione a Bruxelles a sostegno degli uiguri dello Xinjiang, 1 ottobre 2019
Il resto del mondo non è rimasto a guardare la situazione senza intromettersi. Già nel 2018 le Nazioni Unite avevano accusato la Cina per questi centri di detenzione, ritenuti forme di razzismo religioso e violazione dei diritti umani, subendo la dura replica di Pechino.
Nello stesso anno la Turchia ha rivolto le medesime accuse, che anche in quel caso sono state smentite dal Governo cinese come “false e inaccettabili”. E sempre nel 2018 un gruppo di avvocati ha presentato al Presidente statunitense Trump una richiesta per l’introduzione di pesanti sanzioni contro Pechino.
L’8 ottobre scorso, infine, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha rilasciato una dichiarazione ufficiale per sanzionare il comportamento cinese in merito ai campi di detenzione, la limitazione delle libertà di espressione e delle identità culturali e religiose, e il forte controllo sulla popolazione dello Xinjiang. Questa dichiarazione ha introdotto infatti restrizioni del visto a ufficiali del Governo e del Partito Comunista cinesi che si ritiene siano coinvolti o responsabili di questi abusi. Lo stesso giorno 28 soggetti cinesi tra agenzie governative e aziende tecnologiche specializzate in attrezzature di sorveglianza sono stati inseriti nella lista nera statunitense per il ruolo svolto nelle violazioni dei diritti umani in Xinjiang.
Un segnale importante lo ha dato anche il Parlamento Europeo, che nei giorni scorsi ha assegnato il Premio Sakharov per la libertà di pensiero 2019 a Ilham Tohti, avvocato per i diritti della minoranza cinese uigura. Tohti è stato condannato all’ergastolo nel 2014 per “separatismo”.
Fig. 2 – Jewher Ilham, figlia di Ilham Tohti, testimonia di fronte al Congresso degli Stati Uniti sulle condizioni degli uiguri nel 2014. Condannato all’ergastolo, Tohti è stato insignito del Premio Sakharov 2019 dal Parlamento Europeo
Il principio di sovranità cinese si basa sulla non ingerenza esterna nelle questioni del Paese. La comunità internazionale, però, sta cercando di intervenire. A luglio 20 Stati, tra cui Regno Unito e Giappone, hanno firmato una lettera per la chiusura dei campi di detenzione, ma questo non sembra abbastanza.
Nonostante siano uscite numerose testimonianze personali sui campi, Pechino non pare disposta a cedere sul piano politico, né consentendo visite per constatare la situazione esistente in Xinjiang, né venendo meno al principio di non ingerenza nei suoi confini nazionali. Tuttavia è un momento piuttosto difficile per la dirigenza cinese, alle prese con la guerra dei dazi con gli Stati Uniti e con la crisi di Hong Kong, e bisognerà quindi capire come reagirà concretamente a queste pressioni della comunità internazionale.
Protest in 2009 in Washington against the detention of Uyghurs at Guantanamo (via wiki commons)
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