In Medio Oriente è in atto la «diplomazia dei missili». L’attacco alle due maxi raffinerie della compagnia nazionale saudita Aramco nell’Est del regno, quella di Khurais e di Abqaiq (la più grande al mondo), lo ha confermato. La sortita militare, un bombardamento mirato senza precedenti tra Riad e Teheran, in un solo colpo ha mandato in fumo milioni di barili di petrolio, scombussolato l’economia mondiale, facendo schizzare il prezzo del greggio e compromettendo forse definitivamente l’equilibrio nel Golfo Persico.
Per quanto si tenti di collegare l’attacco coordinato alle sole forze ribelli Houhti, le milizie sciite che contendono al favorito dei sauditi (il presidente deposto Mansour Hadi) il governo del Paese, la complessità dell’evento insieme all’obiettivo prescelto portano a ritenere che dietro vi sia un mandante preciso. L’Iran diventa così il proverbiale «elefante nella stanza», indicato dagli stessi Stati Uniti quale responsabile unico. Fonti della CNN, infatti, hanno dichiarato che si sarebbe trattato di «missili» e non di «droni», come inizialmente trapelato.
Droni o missili?
Lo spettacolo osservato non lontano dalla costa del Mar Rosso è, in ogni caso, il risultato di un sofisticato piano d’attacco. Questo per due ragioni: se confermata la teoria dell’attacco di droni, il coordinare una squadriglia di velivoli armati senza pilota rappresenta oggi un modus operandi all’avanguardia nelle cosiddette «guerre per procura», qual è quella in Yemen: la tecnologia messa in campo e la precisione chirurgica del blitz sui cieli sauditi senza che nessun radar o sistema antiaereo lo intercettasse, del resto, lo confermano. Si aggiunga che, in Yemen come in Libia, i droni messi in campo dalle forze in lotta sono sempre di fabbricazione straniera e, poiché possono essere guidati soltanto da piloti esperti, di fatto il loro controllo è affidato a soldati appartenenti alle sole forze armate che, nel padroneggiare lo strumento tecnologico, detengono anche il potere di influenzare l’andamento del conflitto.
A possedere i mezzi e fornire piloti addestrati per la «guerra dei droni», a saper gestire cioè questa tecnologia in funzione offensiva, sono solo pochi Paesi al mondo. In Medio Oriente, soltanto tre: Iran, Qatar, Emirati Arabi Uniti. Con la Turchia e l’Arabia Saudita un passo più indietro. Forse, anche per questo motivo il regno è stato colpito al cuore, in un obiettivo estremamente sensibile e strategico. Il che dimostra, al contempo, come attualmente Riad non disponga di sufficienti contromisure per far fronte a un massiccio attacco di droni.
Se, invece, si fosse trattato del lancio di missili – gli esperti hanno ricostruito la traiettoria e decretato, con un certo margine di sicurezza, che la base di lancio si troverebbe al confine tra Iran e Iraq – non vi sarebbe più ombra di dubbio sul mandante. Presto si avrà il responso, considerato che alcuni di questi missili non hanno raggiunto l’obiettivo e si trovano ancora pressoché intatti nel deserto intorno alle raffinerie petrolifere.
Il dilemma di Trump e Bin Salman
Le domande, a questo punto, sono due: come reagirà al colpo al cuore dell’economia saudita Mohammed Bin Salman, il principe riformatore che vorrebbe cambiare il volto dell’Arabia Saudita? Porgerà l’altra guancia al nemico, in ragione di una «diplomazia dei missili» tesa a negoziare sullo stallo in Yemen, o alzerà il tiro per salvare l’onore? Difficile ingoiare un boccone così amaro, quando alle spalle si ha un Paese amico, chiamato Stati Uniti d’America, la cui presidenza ha in odio l’Iran quasi più di Riad. Ma che, tuttavia, da questa storia cinicamente ha solo da guadagnare, potendo persino garantire ai sauditi riserve di petrolio americane in eccesso, stante la raggiunta indipendenza energetica (difatti, i titoli petroliferi hanno festeggiato alla borsa di Wall Street).
Riad in teoria non ne ha bisogno. Anche gli arabi dispongono di ingenti riserve. Meno, invece, ne hanno gli iraniani, stretti da una morsa economica e da un’irrequietezza intorno alla questione nucleare, che ne fanno un soggetto politico poco lucido e, in taluni casi, sin troppo avventato. Pur avendo vinto la scommessa siriana e aver accresciuto la propria forza nella regione, infatti, Teheran sconta oggi l’avvicinarsi della fine della leadership dell’Ayatollah Ali Khamenei, l’ottantenne guida suprema formatasi sul campo della rivoluzione iraniana del 1978-1979. E l’incertezza del cambio della guardia, che potrebbe fare le fortune o le sventure della Repubblica islamica, può essere causa d’inavvertite fughe in avanti. Altrimenti, non si spiega l’escalation del bombardamento alle raffinerie saudite.
Perché colpire adesso?
La domanda rimane: perché, assumendo che dietro l’attacco sofisticato vi sia davvero Teheran, sfidare ora la pazienza degli americani e dei Saud? Quanto è calcolato questo azzardo? Come sempre, in quell’area del mondo, le ragioni si mischiano e si sovrappongono. Pesano, ad esempio, fattori quali la crisi con il Qatar, che ha visto il blocco sunnita mettere sotto embargo l’emirato di Doha. Pesano i sequestri iraniani di navi mercantili occidentali nel golfo di Aden. Pesa l’instabilità in Siria e Iraq. E, da ultimo, pesano anche le rivalità tra Riad e Abu Dhabi e lo stesso futuro politico di Israele – forse il nemico numero uno degli Ayatollah – dato che il combattivo premier Netanyahu è appeso a un’elezione politica che, vada come vada, rischia in ogni caso di paralizzare la Knesset, cioè il parlamento di Gerusalemme, per lungo tempo.
Infine, cosa deciderà di fare Donald Trump, che ha appena licenziato il consigliere per la sicurezza John Bolton, le cui divergenze di vedute lo vedono ora in compagnia del generale McMaster e di altri ex collaboratori alla difesa, come il segretario Tillerson, allontanati per un atteggiamento troppo contrastante con la visione del presidente? (Quale sia poi sino in fondo questa visione, non è ancora dato sapere). Chiunque diriga davvero la politica estera alla Casa Bianca, cos’ha intenzione di fare di fronte alla sfida posta dal raid? Se sopra quei missili inesplosi dovesse esserci la firma di Teheran, questo metterebbe tutti i protagonisti a nudo.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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