Tutte le tracce del «fascismo sociale» che dopo la guerra sopravvissero nel partito neofascista Movimento sociale italiano (l’Msi, che aveva come simbolo la stessa fiamma tricolore che oggigiorno Giorgia Meloni ha recuperato e che mantiene quale simbolo del suo partito estremamente performante «Fratelli d’Italia»), sono materiale genetico della sinistra. Chiamatelo pure sottoproletario, per recuperare il concetto marxista del Lumpenproletariat che, per sua natura canagliesca, è il nemico del proletariato con coscienza di classe. Il fatto è che quella destra italiana che in qualsiasi modo – in tutto o in parte, di diritto o di rovescio – intende rifarsi al fascismo, è semplicemente agli antipodi della vera destra, che ha come suo cardine politico fondamentale e centrale la libertà di scambiare.
Quando si dice «mercato», «banche», «denaro», «azioni», «soldi», s’incontra sempre una reazione ostile e indignata: è lo «sterco del diavolo» declinato tra capitalismo e liberismo ovviamente selvaggio, che vede mancanza di cuore e di coscienza, e via via tutto l’armamentario dei noti luoghi comuni. Ma se si prova a usare un altro dizionario e si parla invece di «fabbrica del valore», di «materiale e intellettuale», dello «scambio delle merci e delle idee» e del rispetto assoluto dovuto allo scambio stesso, allora ecco che si ottiene un modello che si avvicina molto al concetto moderno di destra: un sistema fondato necessariamente sulla libertà, tanto di intraprendere che di fallire. Libertà di scrivere e pubblicare, di comprare e vendere e scambiare, di modificare e fallire e rinascere. Un sistema senza altri limiti che quelli delle leggi che una democrazia pone a difesa di tutti, senza una gerarchia fra chi produce col proprio rischio e chi produce con la sua forza lavoro.
Qui sta il nodo. E qui sta il problema. Se la destra di un Paese deve essere ciò che fa di essa una vera destra produttrice di ricchezza, allora non è possibile alcuna confusione con qualsiasi politica, anche ben intenzionata, di natura statalista, dirigista, limitatrice delle libertà fondamentali. Cose che invece dipendono tutte dall’esercizio della libertà nel produrre sia ricerca scientifica sia teoria e pratica, come anche dalla possibilità di costruire ciascuno per proprio conto.
Lo suggerì l’illuminista napoletano Gaetano Filangieri all’americano Benjamin Franklin, il quale poi introdusse tale concetto all’interno della stessa costituzione americana: la propria personale dose di felicità. Non però quella raccomandata dallo Stato o da qualsiasi organizzazione micidiale e benefica, ma proprio quella piccola o grande felicità personale utile per vivere bene, che è e deve restare individuale e individualista. Produrre buone idee e goderne gli effetti è anche il miglior antidoto alla guerra e a tutto ciò che ancora cova sotto la cenere dell’essere umano. Il quale, in definitiva, non discende dagli angeli ma da creature della natura più feroce. Così, questa felicità deve fare i conti con alcune contraddizioni. A cominciare dal paradosso di Easterlin, dal nome dell’economista americano che ha tentato di misurare l’economia della felicità. Secondo Easterlin, quando il reddito cresce oltre una certa soglia, la correlazione positiva tra Pil e felicità, tende a svanire. E certo se il Pil cresce perché si costruiscono bombe e si vendono armi, non è detto che questo porti a una reale gratificazione della popolazione.
Anche in Italia, da qualche tempo, l’Istat affianca alla rilevazione del valore del Pil, quella del Bes, il cosiddetto «benessere equo e sostenibile», nell’intenzione di valutare gli effetti della politica economica sulla qualità della vita dei cittadini. Ma basta che un governo cambi i parametri e gli strumenti di misura, perché cambino anche le risposte. In definitiva, per dirla con Woody Allen, «se la ricchezza non fa la felicità, figuriamoci la povertà».
Dal libro
La Maldestra
di Paolo Guzzanti
Redazione
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