Il XXI secolo ha rappresentato nella sua apertura per il Fondo Monetario Internazionale una sorta di bassa marea ovvero una progressiva estromissione dell’organismo finanziario dalle dinamiche economiche della sub regione latinoamericana. Ciò che ha segnato un tale ridimensionamento dell’influenza del FMI sulle sovranità latinoamericane è dovuto soprattutto ad un palese fallimento delle condizionalità dallo stesso applicate in cambio dell’elargizione di fondi creditizi utili a risanare il debito pubblico di paesi spesso protagonisti di artificiose crescite miracolose molto spesso tradottesi in drammatiche recessioni. A supporto di questi fallimenti il FMI è sempre intervenuto generosamente segnando soprattutto il ventennio ’80-’90 del XX secolo. L’intervento del FMI prevede l’assegnazione di un credito dietro l’impegno del Paese interessato ad applicare delle revisioni strutturali della propria economia e dietro ovviamente una restituzione programmata e rateizzata maggiorata di lauti interessi.
Per quanto concerne le revisioni strutturali a cui abbiamo accennato queste sono definite condizionalità e rappresentano una serie di “raccomandazioni” utili alla ristrutturazione di un’economia in deficit. Nello specifico parliamo di rimodulazione del sistema fiscale, deregolamentazione del mercato interno e del sistema lavoro, liberalizzazione del mercato con conseguente ridimensionamento della partecipazione pubblica alla vita economica attiva del paese. Suggerimenti ovviamente accolti dai governi di turno per poter accedere alle risorse finanziarie da restituire secondo un piano di rientro preciso e impreziosito da alti interessi. Questo meccanismo in America Latina ha segnato la deflagrazione di diverse economie spesso risucchiate in vortici senza soluzione fatti di interessi su interessi impossibili da pagare per via di un sistema statale ormai privato di ogni ingresso utile a tale scopo (la privatizzazione dei settori pubblici on faceva che ridurre le entrate statali alle sole tasse che a loro volta venivano mutilate dalla detassazione degli investimenti esteri nel paese). L’apice forse della non sostenibilità di tale sistema fu dato dal Default dell’Argentina nel 2001. Un collasso finanziario che vede in vero le sue origini nella mala gestione della dittatura di Videla (già in relazione con il FMI) e poi perpetrata fino alla presidenza di Carlos Saúl Menem. Anni di finta crescita terminati con una disarmante insolvenza e bancarotta del paese del Cono Sud. Da quel momento in poi tuttavia in Sud America vi fu una sorta di ridefinizione politica con un forte slittamento a sinistra. Nella gran parte dei paesi infatti si insediarono governi socialisti che come punto imprescindibile della propria progettualità ponevano l’allontanamento dei funzionari del FMI dalle proprie gestioni economiche e il ripristino di una partecipazione pubblica attiva e determinate alla vita economica del paese. È sempre l’Argentina a fare scuola in tal senso con un saldo esemplare del proprio debito nel 2006 con il FMI e completa chiusura allo stesso organismo identificato quale causa del default del 2001.
Argentina che nuovamente, oggi, può essere visto come il simbolo del ritorno dell’organismo finanziario nella regione latinoamericana. La ventata socialista nel continente vive una flessione e gli approcci politici neoliberali sembrano avere ripristinato una pseudo fiducia con il proprio elettorato. Buenos Aires in chiusura del 2015 si è messa alle spalle 12 anni di kirchnerismo (Nestor Kirchner fu l’artefice dell’espulsione del FMI dal paese e tale approccio fu perpetrato dalla moglie Cristina durante il proprio mandato fino per l’appunto al 2015) e con Macri ha sin da subito riaperto al sistema creditizio internazionale. Un’apertura che non poteva che generare un’ulteriore impennata del debito del paese che oggi (2018) dimostra ogni sua pericolosità. L’Argentina appare sull’orlo di un nuovo default e finisci proprio con il chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale che di tutta risposta, prodigo di consigli, apre in favore di Buenos Aires un credito di 50 miliardi di dollari da restituire in tre anni. Le prospettive del FMI sono di una mancata crescita dell’economia argentina per il 2018 e la necessità di attuare un piano di aggiustamenti strutturali per il buon esito del piano di sanazione dei conti (condizionalità). Ma nel mese di luglio anche l’Ecuador di Lenin Moreno, desideroso di voltare pagina e riscrivere la propria Rivoluzione Cittadina in contrapposizione al suo predecessore Correa, ha inteso richiedere la consulenza tecnica del FMI. Una decisione volta ad avviare un piano di riforme strutturali (condizionalità) capaci nel rendere attrattivo il paese per gli investimenti esteri privati. Una mossa, quella di Moreno, che sin da subito ha avuto effetti positivi sulle risorse finanziarie di breve periodo. Infatti la Banca Mondiale ha reagito all’apertura di Quito con l’ampliamento del credito verso il paese andino da 1 miliardo di dollari a quasi un miliardo e mezzo. Relazioni finanziarie che durante il mandato di Rafael Correa non erano affatto possibili a causa del veto presidenziale ad ogni pacchetto di condizionalità proposto dagli enti finanziari internazionali.
Se vogliamo tuttavia avere una percezione maggiore delle spire di un organo internazionale sull’economia e la stabilità politica di un paese occorre andare là dove la condizione è cronicamente in disavanza per il susseguirsi di catastrofi naturali: Haiti. L’isola caraibica da anni ormai messa in ginocchio da disastri ambientali (terremoto del 2010 e tsunami del 2004) e continue invasioni e ingerenze (ultima invasione militare è avvenuta nel 1994 ad opera degli USA mentre ora l’isola è praticamente occupata dalle forze internazionali dell’ONU a seguito del disastro provocato dal terremoto del 2010). L’isola ha ovviamente accettato alcune condizionalità del FMI per riuscire a sanare il proprio debito estero, ma lo scorso 14 luglio l’eccesso di tale subordinazione alle volontà del FMI è costata la carica di primo ministro a Jack Lafontant. Le sue dimissioni sono infatti arrivate a seguito di violente proteste popolari contro l’aumento del carburante (fino a + 51% sul prezzo) pattuito con il FMI. Dietrofront d’obbligo da parte del governo e dimissioni del Primo Ministro. Questo è quanto accade quando le condizionalità tradotte in riforme vanno ad esasperare oltre ogni modo una popolazione già in condizione di povertà. L’interazione tra Haiti e il FMI è stata rinnovata proprio lo scorso febbraio con un programma operativo di aggiustamenti tecnico-finanziari intitolato Staff Monited Program (SMP). In realtà tale programma risale al 2015 e nel 2018 siamo semplicemente all’ennesimo adeguamento dello stesso alle necessità strutturali riconosciute dal FMI. L’accettazione dell’SMP ha consentito ad Haiti di accedere nel 2015 ad un credito di 49 milioni di dollari e nel 2016, a seguito dell’Uragano Matthew, ad un’ulteriore credito di 30,7 milioni di dollari con la formula del credito rapido.
Tutti fondi che ovviamente andranno restituiti maggiorati degli interessi maturati che per un’economia in ginocchio e cronicamente non autosufficiente appare più come un’utopia che una prospettiva realizzabile in un mondo in cui appare ben chiaro che chi torna a fare ottimi affari non è altro che il FMI o gli altri organismi finanziari internazionali che con le loro condizionalità non fanno altro che accrescere la propria Eldorado.
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