Alla fine di luglio di quest’anno l’Arabia Saudita ha annunciato di aver interrotto temporaneamente le esportazioni di petrolio destinate a transitare nello stretto di Bab Al Mandab, che separa il Mar Rosso dal Golfo di Aden. Riad ha motivato questa decisione con la necessità di proteggere le sue navi dagli attacchi dei gruppi armati sciiti degli huthi che, dal settembre del 2014, controllano buona parte dello Yemen nord-occidentale, inclusa la capitale San’a. Contro tali formazioni, sostenute dall’Iran, è impegnata una coalizione di Stati arabi sotto la guida dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, che affianca le forze governative del presidente Mansour Hadi. Le operazioni per la riconquista dei territori ribelli vanno avanti dal marzo del 2015 ma l’intervento dei Paesi vicini non è ancora riuscito a piegare la resistenza degli Huthi, nonostante la superiorità militare e le cospicue risorse economiche impiegate.
La crisi yemenita sembrava prossima a una svolta quando, il 13 giugno scorso, la coalizione aveva annunciato una massiccia offensiva sul centro di Hodeida. L’obiettivo è molto importante sul piano strategico poiché dal porto della città passano quasi tutti i rifornimenti alle milizie Huthi, insieme agli aiuti umanitari per la popolazione civile. La rapida avanzata delle truppe governative, sostenute da massicci raid aerei, ha consentito di sottrarre ai ribelli in pochi giorni l’area dell’aeroporto internazionale, lasciando presagire l’imminente conquista della città. Ma le speranze del governo rifugiatosi ad Aden si sono infrante contro la difficoltà ad avanzare in uno scenario densamente popolato, dove gli Huthi possono mescolarsi con i civili e ricorrere facilmente a tecniche di guerriglia. Anche Riad e Abu Dhabi si erano convinte, all’inizio dell’estate, che la strada verso una rapida conclusione della campagna militare in Yemen fosse ormai tracciata.
Questo senso di urgenza deriva anche dalla crescente insoddisfazione dell’opinione pubblica, sempre meno disposta ad accettare i costi economici e umani del confronto indiretto con l’Iran nell’antico Paese della regina di Saba.
Il malumore di Riad per l’andamento delle operazioni militari e l’irritazione per l’incapacità della diplomazia di mettere fine alla guerra civile yemenita sono aumentati in seguito al fallimento, l’8 settembre scorso, dei colloqui di pace promossi a Ginevra dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, Martin Griffiths. Le trattative tra il governo di Aden e le delegazioni degli Huthi non sono proprio cominciate poiché i ribelli ritengono che non sussistano le condizioni per avviare il dialogo.
L’Arabia Saudita aveva guardato con interesse all’iniziativa dell’Onu anche perché il protrarsi della crisi yemenita e soprattutto dei combattimenti per il controllo del porto di Hodeida rischiano di alimentare antiche pulsioni separatiste nella provincia sud-occidentale dell’Asir. A Riad, soprattutto all’interno della famiglia reale, è ancora presente il ricordo delle difficoltà incontrate dagli Al Saud per sottomettere il piccolo emirato, sottoposto per secoli alla dominazione formale degli ottomani, ma controllato nei fatti dalla dinastia yemenita degli Idrisiti.
All’inizio degli anni ’30 del secolo scorso, pochi mesi dopo la proclamazione della nascita del Regno saudita, l’esercito del nuovo Stato fu impegnato in azioni di guerra proprio in quest’area e nella regione di Hodeida. Lo scopo era di mettere fine a vecchie dispute territoriali e al sostegno che i ribelli dell’Asir ancora ricevevano dall’imam Yahya, sovrano dello Yemen tra il 1918 e il 1948. Le operazioni militari cominciarono all’inizio di marzo del 1934, dopo il fallimento dei negoziati per riportare sotto controllo saudita le città di Najran el Al Badr, conquistate da principi yemeniti col pretesto di punire alcune tribù locali ostili all’imam Yahya. I sauditi avanzarono i due colonne e, mentre quella che procedeva nell’entroterra incontrò notevoli difficoltà a prendere villaggi protetti da alte montagne e pareti a strapiombo, le truppe di uno dei figli di Ibn Saud, il principe Faysal, seguirono la linea di costa e catturarono facilmente la città di Hodeida, il 2 maggio 1934. L’emiro chiese al padre l’autorizzazione a proseguire verso San’a ma il re rifiutò perché consapevole che le potenze europee, soprattutto il Regno Unito e l’Italia, non avrebbero permesso a Riad di estendere il suo controllo a un’area fondamentale per le comunicazioni con il loro possedimenti coloniali in Africa orientale e in Asia. Anche per queste ragioni, il 15 maggio 1934, fu concluso un armistizio e, cinque giorni dopo, un trattato di pace tra i due Paesi.
La conquista saudita di Hodeida di più di ottant’anni fa, descritta con minuzia nei libri di storia del Paese, ha alimentato la speranza della classe dirigente di Riad di replicare oggi quell’episodio, mettendo fine rapidamente alla ribellione degli huthi, privati degli introiti da attività marittime e di quasi tutti i rifornimenti in transito clandestino attraverso il porto, spesso a bordo di pescherecci o piccole imbarcazioni. La realtà si è rivelata molto diversa e al momento la crisi yemenita non sembra prossima alla conclusione. Riad è obbligata a non mostrare segni di debolezza, anche a prezzo di grandi sacrifici economici e di una crescente insoddisfazione popolare, per non arretrare nello scontro geopolitico che la vede contrapposta a Teheran. Nello stesso tempo, il protrarsi della guerra civile al di là della frontiera sud-occidentale saudita rischia di risvegliare l’antico spirito indipendentista dell’Asir, dove gli lo sciismo nella variante zaydita non è mai stato sostituito dal wahhabismo di Riad. Un elemento di debolezza geopolitica, di cui l’Iran degli ayatollah potrebbe approfittare, con grande preoccupazione del principe ereditario Muhammad bin Salman, che non è riuscito a ottenere i successi militari di Faysal a Hodeida.
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