Nella Capitanata, a Castel Volturno e nella Piana di Gioia Tauro, dove lavorano migliaia di braccianti stranieri, sono le ong e i sindacati a dare una mano a chi vive ai margini. In attesa di un intervento organizzato da parte delle istituzioni
Nella difficoltosa gestione dell’emergenza Covid-19 in Italia, c’è una fascia della popolazione che rischia di essere lasciata sola. Sono le migliaia di migranti che lavorano da braccianti nelle terre del caporalato. Persone che vivono in abitazioni d’emergenza, in condizioni igieniche carenti, con un accesso limitato al sistema sanitario e che non possono permettersi a lungo di restare a casa senza lavorare. Se il virus attecchisce in questi contesti, il contagio non potrà che estendersi a tappeto.
La situazione nella Capitanata
Una delle situazioni più critiche si registra nelle zone rurali della provincia di Foggia. Nella Capitanata a supporto dei migranti opera in prima linea Intersos. L’organizzazione umanitaria ha chiesto alla Regione Puglia e alla Asl di Foggia di aumentare con urgenza l’accesso all’acqua e ai servizi igienico-sanitari per gli otto insediamenti in cui porta avanti da due anni un servizio di medicina di prossimità: l’ex pista aeroportuale di Borgo Mezzanone, il Gran Ghetto di Torretta Antonacci, Borgo Tre Titoli, l’agro di Palmori, l’agro di Poggio Imperiale, l’ex fabbrica Daunialat a Foggia, contrada S. Matteo e Borgo Cicerone.
In totale sono 2.400 le persone a cui cinque operatori dell’organizzazione vengono in soccorso con due unità mobili. Senegal, Gambia, Ghana e Nigeria i principali paesi d’origine.
«Questo è un territorio difficile – spiega a Nigrizia Alessandro Verona, referente medico dell’unità Migrazione di Intersos – Foggia è la terza provincia più grande d’Italia e quella con la presenza di insediamenti stanziali informali più importante del paese».
In pratica, un nervo estremamente scoperto sul piano della marginalità, dove le barriere culturali e linguistiche rendono complicata di per sé la sola ricezione delle misure preventive di base da adottare per evitare che le persone si infettino.
«Con l’emergenza coronavirus abbiamo immediatamente convertito la nostra attività di informazione socio-sanitaria in attività di prevenzione e in interventi rapidi per le situazioni sospette», prosegue il medico di Intersos. «Non abbiamo riscontrato casi al momento. La mobilità resta però un tema centrale. Gli stranieri qui si muovono per lavorare e per accedere ai servizi di base. Queste persone hanno vissuto negli anni quarantene fisiologiche sul piano sociale. Ciò sta determinando per loro una esposizione minore al virus, ma non vuol dire che il contagio non arriverà. Abbiamo solo più tempo per lavorare sulla prevenzione».
Da Castel Volturno un video per informare gli stranieri
A Castel Volturno, nel casertano, il presidio sanitario più attivo per i braccianti stranieri è quello di Emergency. Qui l’organizzazione di Gino Strada ha realizzato e veicolato sui social network un video in pidgin english. Un’idea originale per far comprendere le precauzioni da adottare per scongiurare il contagio nell’area. In totale gli immigrati che ruotano attorno all’agro-business locale sono circa 15mila, tra regolari e irregolari, in prevalenza ghanesi e nigeriani. Con l’entrata in vigore dei decreti sicurezza molti di loro hanno perso la protezione umanitaria.
Una grana in più per chi già faceva fatica a lavorare alla giornata, e che ora per questa emergenza viene anche limitato negli spostamenti. «Registravamo circa cinquanta accessi al giorno, ora sono scesi a cinque», racconta il responsabile dell’ambulatorio di Emergency a Castel Volturno Sergio Serraino. «C’è tanta gente che però non può fare a meno di andare a lavorare nei campi o nei mercati ortofrutticoli, ci sono donne con gravidanze a rischio. Per queste persone spostarsi ora diventa ancora più difficile».
Nel video lanciato da Emergency viene spiegato cosa sta accadendo in Italia e descritte le misure d’emergenza adottate dal governo italiano. «Diciamo loro che si deve uscire di casa solo se si ha un lavoro certo, e non se lo si deve andare a cercare alle rotonde, e che se hanno problemi di salute importanti devono chiamare il medico o un’ambulanza», prosegue Serraino.
«Facciamo un triage all’esterno dell’ambulatorio. Un nostro infermiere visita una alla volta le persone in arrivo, misura loro la temperatura, chiede se sono state recentemente in regioni del nord Italia. Se hanno sintomi preoccupanti, le rimandiamo a casa e stiamo costantemente in contatto con loro. Il tutto è coordinato con l’Unità operativa di prevenzione collettiva. Possiamo garantire un certo livello di sorveglianza epidemiologica sul territorio, cerchiamo di dare una mano».
Rischio in aumento negli insediamenti informali della Piana
Altro territorio critico è quello della Piana di Gioia Tauro, dove durante i mesi invernali nella raccolta agrumicola e olivicola sotto attivi oltre 4mila lavoratori africani, provenienti soprattutto da Ghana, Gambia, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Senegal, Mali, Nigeria e Niger. Celeste Logiacco, segretario generale della Cgil per la Piana di Gioia Tauro, conferma che nella nuova tendopoli di San Ferdinando, dove risiedono circa 400 persone, il Comune ha effettuato la sanificazione dell’intera struttura, sono stati distribuiti gel igienizzante e guanti, mentre resta difficile reperire le mascherine.
È stato inoltre richiesto l’invio di ulteriori tende e moduli igienici da allestire all’esterno della tendopoli per poter isolare eventuali casi di contagio, e in questi giorni arriverà un termoscanner. Resta attivo a Polistena l’ambulatorio di Emergency che continua a offrire assistenza sanitaria, anche attraverso un servizio navetta che due volte al giorno fa tappa nei paesi della Piana.
La comunità locale fa sentire la propria presenza con la raccolta di derrate alimentari, beni di prima necessità e sapone liquido. Dall’inizio dell’emergenza il sindacato ha diffuso volantini e schede informative tradotti in varie lingue e distribuito gel disinfettante e guanti.
Ma tutto ciò potrebbe non bastare per contenere il virus. «Nella maggior parte degli insediamenti informali c’è difficoltà nel far adottare le misure essenziali per la prevenzione del contagio, prima tra tutte il lavaggio di mani e abiti, così come evitare i contatti ravvicinati e il mantenimento della distanza interpersonale a causa della condivisione precaria degli spazi, spesso molto piccoli, privi di qualsiasi condizione igienico-sanitaria, riscaldamento e aereazione», spiega Logiacco.
Servono, e al più presto, piani d’azione specifici da parte delle istituzioni per mettere in sicurezza e proteggere chi vive in queste condizioni. Altrimenti nelle terre del caporalato il contagio sarà difficile, se non impossibile, da controllare.
FOTO: Castel-Volturno_Ph-Alessandro-Cinque
Rocco Bellantone
Caporedattore di Babilon, giornalista professionista, classe 1983. Collabora con le riviste Nigrizia e La Nuova Ecologia di Legambiente. Si occupa di Africa, immigrazione e ambiente.
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