Delhi, Meerut, Chandigarh, Patiala, Kanpur, Aligarh, Ahmedabad (nel Gujarat, lo stato dove Narendra Modi è nato e ha iniziato la sua carriera politica), Lucknow, Varanasi, Patna, Guwahati, Tezpur, Itanagar, Dibrugarh, Imphal, Silchar, Aizawl, Manu, Shillong, Santinketan, Kolkata, Bhopal, Mumbai, Pune, Hyderabad, Kasargod, Bangaluru, Chennai, Puducherry, Mysuru, Kochi, Kottayam.
Sono le città dove gli studenti e una parte della società civile hanno protestato contro l’emendamento costituzionale che ridefinisce i criteri di concessione della cittadinanza indiana. L’acronimo (gli indiani adorano gli acronimi) è CAB: Citizenship Amendment Act. Il criterio di cittadinanza, stabilisce questa modifica, diventa principalmente religioso: i profughi fuggiti da Bangladesh, Pakistan e Afghanistan perché perseguitati, la possono ottenere se sono hindu, sikh, jainisti, parsi e perfino cristiani. Anche i musulmani sono riparati in India perché minacciati: ma loro non potranno intraprendere il percorso che porta alla cittadinanza indiana.
I primi a manifestare erano stati gli studenti delle università a vocazione islamica. La brutalità della repressone poliziesca ha spinto a protestare migliaia di altri studenti e cittadini. Se cercate sulla mappa tutte le città indiane menzionate, troverete l’intera india da Nord a Sud, da Ovest all’estremo Est. Le università coinvolte fino ad ora, sono più di 70. Gli atenei indiani sono molti di più ma in questo paese il concetto di minoranza è piuttosto evanescente: anche la minoranza ha grandi numeri. I musulmani sono il 14% della popolazione indiana ma sono anche 200 milioni.
Qualche giorno fa c’è stata anche una manifestazione sotto il Gateway of India, l’arco che guarda verso il lungo viale del Rajpath fino al palazzo presidenziale. In coro, la gente ha letto il Preambolo della Costituzione Indiana che stabilisce una “Repubblica Sovrana, Laica e Democratica”. Dunque tutti i suoi cittadini godono della stessa quantità di “giustizia, libertà ed equità”. “We the People of India” è l’incipit del preambolo: quella americana è la Costituzione democratica più antica, l’Indiana la più lunga.
Amando questo paese, frequentandolo da quarant’anni, fatico a pensare che quei valori fondamentali siano in pericolo. Ma un doloroso sospetto si fa strada a gomitate in questo amore. Prima il Kashmir, l’unico a maggioranza musulmana, declassato da stato a “Territorio dell’Unione”; poi il verdetto su Ayodhya della Corte Suprema (nel 1992 gli estremisti hindu distrussero un’antica moschea e i giudici hanno avallato la violenza decidendo che su quelle rovine debba sorgere un tempio hindu: i musulmani potranno ricostruire la loro moschea in un lotto vicino); e ora il CAB.
A volte tre sospetti bastano per costruire una certezza. Ma resisto nel credere che l’India di Narendra Modi stia scivolando verso uno stato confessionale come il Pakistan. La decisione sul Kashmir ha certamente anche altre ragioni. E su tutte e tre c’è comunque un grande consenso popolare. Sebbene… La moschea di Ayodhya fu distrutta perché, secondo gli estremisti, in quel luogo era nato il dio Ram, invocato dal Mahatma nel momento della sua morte. Anche al posto del magnifico Taj Mahal di Agra, secondo l’RSS, c’era un tempio hindu. I più belli fra i monumenti dell’India del Nord sono stati costruiti dagli imperatori Moghul, musulmani. Chi più, chi meno, sono tecnicamente tutti a rischio.
L’RSS è il Rashtriya Swayam Sevak Sang, l’Organizzazione nazionale dei volontari: un movimento religioso, culturale e paramilitare il cui braccio politico è il BJP, il partito di Narendra Modi, al potere da cinque anni e riconfermato quasi a suffragio universale per i prossimi cinque. All’RSS Modi aderì all’età di otto anni. Un’India laica e democratica può reggere un’organizzazione di quella natura. In un paese diverso, l’RSS ne diventa la fonte delle idee di governo, delle leggi e delle proiezioni sul futuro.
Tutti i direttori che mi mandavano a seguire le tragedie indiane – l’assassinio di Indira Gandhi, di suo figlio Rajiv, l’incidente di Bhopal, Ayodhya, i pogrom religiosi, etnici o castali, gli incidenti di frontiera e la corsa al nucleare col Pakistan – mi facevano sempre la stessa domanda: l’India sopravvivrà? Chi ne masticava un po’ di questo complesso paese non intendeva lo stato indiano ma la sua essenza democratica: quel modello straordinario creato da Jawaharlal Nehru e dal Mahatma Gandhi che nel 1947 fecero dell’India l’unico paese democratico dell’Asia decolonizzata. A parte il Giappone ma quella è un’altra storia. Quando ci andai per la prima volta da giornalista, l’India l’avevo già visitata e studiata. Rispondevo alla preoccupazione dei miei direttori solo perché erano i miei direttori: per me la domanda era mal posta. Voglio continuare a credere che lo sia; che Narendra Modi continui la crescita indiana e la decrescita della sua povertà, mostrando che l’ideologia suprematista hindu sia la periferia del suo pensiero politico e della sua leadership; e che se non fosse così, fra meno di cinque anni gli indiani eleggeranno un nuovo primo ministro.
Pubblicato sul blog Slow News di Ugo Tramballi sul sito de Il Sole 24 Ore
PHOTO:CNN
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