Il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte ha parlato di successo, ma nella conferenza siciliana, che ha visto all’ultimo la presenza di tutti gli attori libici e internazionali coinvolti, si è solo tracciata la roadmap di quello che dovrà essere il processo di riunificazione e ricostruzione di un Paese vittima dell’anarchia dalle rivoluzioni arabe del 2011. Da quando venne rovesciato il Raìs Muhammar Gheddafi, lo Stato libico ha perso la sua stabilità politica ed economica, finendo teatro della contesa fra milizie irregolari, lotte tribali e l’ingerenza poco trasparente di potenze esterne.
I 38 rappresentanti nazionali e le 30 delegazioni che in due giorni si sono confrontate presso la Villa Igiea di Palermo hanno provato a rinnovare l’impegno della comunità internazionale, dopo le violenze a Tripoli del 4 settembre, quando la Settima Brigata aveva attaccato le forze armate della capitale provocando 120 morti e il rinvio delle elezioni politiche, che dovevano inizialmente tenersi il 10 dicembre. La conferenza in Francia del 29 maggio scorso ha così miseramente fallito e anche la diplomazia italiana deve al momento affidarsi alla parola data dalle forze in campo, senza potersi appellare a qualche garanzia concreta.
Fayez al-Sarraj e Khalifa Haftar, i leader delle due opposte fazioni in Tripolitania e in Cirenaica, si sono stretti la mano di fronte a Conte, ma dietro un contesto di facciata le divisioni fra i due schieramenti sono ancora molto forti. Al-Sarraj rappresenta il fronte islamico, quello sostenuto da Turchia e Qatar, vicino ai Fratelli Musulmani. Haftar, militare in cui molti rivedono lo stesso Gheddafi, è sostenuto da Egitto, Russia e Francia, solo negli ultimi mesi riconosciuto anche dalla comunità internazionale. Non a caso a Palermo la delegazione turca guidata dal vicepresidente Fuat Oktay ha lasciato il tavolo prima della conclusione dei lavori, lamentando il troppo spazio concesso al generale libico, oltre ad alcuni confronti che hanno coinvolto l’Egitto del nemico Abdel Fattah el-Sisi e il premier russo Dmitri Medvedev. Identici sospetti quelli nutriti dal ministro degli Affari esteri qatarino Mohammed bin Abdulrahman
Con lo stesso spirito, Haftar ha evitato la sessione plenaria conclusiva, per non farsi ritrarre con al-Meshri, il presidente dell’Alto Consiglio di Stato e del parlamento di Tripoli, noto sostenitore dei Fratelli Musulmani. Ugualmente, Italia e Francia hanno parlato di una riconciliazione sugli interessi economici, ma la battaglia sui pozzi petroliferi rimane aperta per Eni e Total, a dispetto di quanto le diplomazie dei due Paesi vogliano far credere. Anche rilanciare l’accordo di cooperazione che firmarono Gheddafi e Berlusconi, in merito all’immigrazione, non è un’opzione scontata per la Farnesina, quando le istituzioni libiche sono ancora tutte da rifondare.
Il rappresentante dell’Onu Ghassam Salamè si è definito fiducioso, ma ci sono dei punti in sospeso per i quali sarà necessario far seguire i fatti, condizione obbligatoria per dare un giudizio positivo alla conferenza di Palermo. I lavori delle diplomazie si sono conclusi con 3 ore di ritardo, giusto per dare un’idea delle difficoltà dei temi trattati, per i quali non saranno mai tutti d’accordo. L’obiettivo nel medio termine sarà quello di effettuare la revisione contabile delle banche di Bengasi e di Tripoli per ricostituire successivamente una banca centrale libica. Poi la faticosa unione dell’esercito, sostituendo le forze armate irregolari con delle nuove che siano bilateralmente riconosciute. Lo stesso Salamè ha ammesso che questo sarà il lavoro di anni, quindi in contrasto con le più ottimistiche dichiarazioni della conferenza stampa, dove si auspicava una conferenza in Libia a gennaio e lo svolgimento delle elezioni nella primavera 2019. Haftar ha confermato la tregua con al-Serraj fino allo svolgimento di queste, perché per lui «non si cambia cavallo mentre si attraversa un fiume». Tuttavia, molti sanno bene quanto il generale ambisca al controllo del Paese, se possibile alle sue condizioni, nel momento in cui controlla già la maggior parte delle milizie libiche presenti sul territorio.
Per ultimo, non di poco conto sarà il ruolo giocato dalla Russia, nel momento in cui la presidenza di Donald Trump sembra avere confermato la linea di Barack Obama, ovvero di «lead from behind». Molto difficile, quando a Palermo l’unico rappresentante statunitense era David Satterfield, consigliere per il Medio Oriente ma di certo non il presidente Trump o il segretario di Stato Mike Pompeo. Nel complesso degli avvicendamenti internazionali, l’Italia almeno dal punto di vista diplomatico è tornata protagonista, tanto che i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini si sono complimentati con il Presidente Conte. In realtà è solo il primo passo di una strada che sarà molto in salita, deviata continuamente dalle frizioni generate dagli interessi opposti degli attori in scena. Un percorso lungo il quale il nostro Paese è chiamato a giocare la sua partita. Sicurezza, terrorismo, immigrazione sono tre elementi che sui tavoli e sulle carte della Farnesina portano sempre il nome della Libia, negli ultimi anni di crisi più che in altri periodi storici.
Lorenzo Nicolao, Twitter: @LolloNicolao
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