L’attacco delle milizie al Governo Serraj ha drammaticamente riaperto la questione Libia, anche per l’opinione pubblica italiana. Come stanno davvero le cose?
Sembra dominare parecchia confusione, soprattutto sui social media, dove si attacca ferocemente la Francia di Macron e si richiede a gran voce una qualche iniziativa spettacolare del Governo Conte per salvaguardare gli interessi italiani nel Paese nordafricano. Come stanno davvero le cose? E cosa può fare effettivamente Roma per riportare un po’ di stabilità nel ginepraio libico? Proviamo a fare chiarezza rispondendo a quattro domande chiave sull’argomento.
1. QUALI SONO I PRINCIPALI INTERESSI DELL’ITALIA IN LIBIA?
Per capire alcune scelte italiane in Libia serve conoscere alcuni aspetti relativi alle risorse energetiche locali. Tutti parlano di petrolio, ma come abbiamo sottolineato varie volte, in realtà oltre al petrolio c’è il gas e il gas per Italia e Eni è un asset energetico più importante. Questo perché il petrolio può essere reperito più facilmente da altre fonti, ma per il gas naturale non è altrettanto semplice. Il gas libico è geograficametne vicino e arriva via gasdotto (quindi è più economico del GNL – Gas Naturale Liquido, vedi box in questo nostro precedente articolo per una spiegazione – via nave).
Questo non significa che il petrolio libico non sia potenzialmente interessante: è di buona qualità, definito come light sweet dagli esperti. È cioè di facile estrazione, rende maggiormente in benzina e distillati medi utilizzabili per la petrolchimica (light) e possiede una bassa quantità di zolfo, problematico per l’estrazione e la raffinazione (sweet). Il problema però è che gli impianti locali sono vecchi e hanno bisogno di manutenzione e i giacimenti molto sfruttati e avrebbero bisogno dell’impiego di tecniche che migliorano l’estrazione (EOR – Enhanced Oil Recovery) per mantenere livelli di produzione sostenuti. Tutto questo richiede investimenti milionari, che nella situazione attuale di incertezza non vengono ovviamente presi in considerazione dalle compagnie che potrebbero farlo. Dunque il petrolio libico interessa ma la vera partita, per l’Italia, è sul gas. Ed è qui che entra in scena il grosso dell’interesse energetico italiano.
I principali giacimenti di gas sono nella parte ovest del Paese, controllati dall’Eni. E questa è la parte dove il generale Haftar ha meno controllo. L’Italia quindi ha appoggiato Serraj perché farlo (e appoggiare varie milizie locali) aiuta a proteggere gli interessi dell’Eni sui giacimenti di gas e il terminal di Mellitah. Inoltre, sempre a ovest ci sono comunque anche alcuni giacimenti di petrolio e quindi la posizione consente di sfruttare anche quelli. Inoltre l’appoggio al governo teoricamente “ufficiale” consente di poter fare accordi internazionalmente vincolanti per quanto riguarda i giacimenti offshore, più sicuri da sfruttare, altro punto che interessa a Italia e Eni. Il bacino della Sirte e la zona est invece cadono nell’area dove Haftar ha maggiore controllo. Senza ripetere quanto detto per i motivi della guerra in Libia contro Gheddafi, la Francia, che fa fatica ad aumentare influenza nell’ovest, cerca di mantenere il controllo a est.
Quindi per l’Italia la scelta tra Haftar e Serraj ha radici anche propriamente “geopolitiche” nel senso di relazione tra geografia e politica. Da qui gli accordi con milizie locali, volti alla protezione degli asset Eni nell’ovest del Paese, da qui il supporto a Misurata (principale attore anti-Haftar), ecc… E’ ovvio però che Serraj rimane un alleato “debole”, per via della dubbia legittimità politica e del potere reale che resta nelle mani delle milizie che lo supportano. Nei fatti Serraj è un po’ come un re fantoccio che vari contendenti vogliono controllare per ottenere i benefici relativi: per citare Arturo Varvelli, membro del nostro comitato scientifico, le varie milizie che sono escluse dagli accordi con Serraj (e quindi dai benefici che ne derivano) e dall’iniziativa francese (vedi dopo) provano a entrare nel gioco per imporre il proprio ruolo e ottenere vantaggi materiali.
In questo scenario l’Italia finisce per pagare anche la sua politica sui migranti: oggi le varie milizie della Tripolitania si combattono infatti anche per ottenere il controllo di quei traffici che consentono di poter chiedere soldi a Roma per non far ripartire i migranti – una dinamica che noi del Caffè avevamo già denunciato quando l’ex-Ministro degli Interni Marco Minniti aveva dato il via alla sua strategia in Libia – e che quindi costituisce motivo di competizione, non di stabilità.
2. LA FRANCIA È RESPONSABILE DEI DISORDINI ATTUALI?
La Francia ha in effetti alcune importanti responsabilità: la sua iniziativa politica, che vorrebbe nuove elezioni nei prossimi mesi, in realtà non prende in considerazione proprio le tante milizie presenti sul territorio (un ottimo lavoro di Wolfram Lacham e Alaa al-Idrissi per lo Small Arms Survey non solo illustrava bene la situazione già a Giugno scorso, ma ne evidenziava i rischi connessi), con quelle escluse che cercano dunque occasioni e mezzi per ribadire la propria rilevanza e non essere tagliate fuori dalle discussioni sul futuro del Paese. Ne deriva che una stabilizzazione della Libia deve plausibilmente passare proprio da una maggiore inclusione delle varie fazioni locali. Per fare ciò, però, non bisogna cercare di cacciare Parigi fuori dalla Libia, come suggerito bellicosamente da alcuni esponenti politici sui social media. Al contrario, occorre che francesi e italiani si parlino francamente e trovino un accordo tra di loro, imponendolo poi alle fazioni legate ad essi e colpendo chi non ci sta. Insomma, Roma e Parigi non devono trattarsi come nemici, ma lavorare insieme per raggiungere un compromesso favorevole alla stabilizzazione del Paese nonostante la diffidenza reciproca.
3. L’ITALIA HA SBAGLIATO AD APPOGGIARE SERRAJ?
L’Italia ha appoggiato Serraj per una serie di buoni motivi, come in parte spiegato prima, ma non sembra aver compreso appieno le conseguenze della sua scelta. Se le cose si mettono male, infatti, serve mettere in conto di poter dover intervenire direttamente in qualche modo. Non è un segreto che le forze speciali di tutti i Paesi interessati (persino la Germania!) operino dal 2011 in Libia, spesso con interventi puntuali o molto granulari. Per i francesi, che hanno in Haftar un alleato locale molto forte, il coinvolgimento diretto è minimo. Anche il coinvolgimento diretto italiano è ridotto, ma con l’handicap di aver scelto un alleato debole e precario.
Quindi il problema non è la scelta in sé, ma il come metterla in pratica. Se si decide di appoggiare Serraj e si vuole far capire che lui non si tocca, l’impegno economico e militare deve compensare per le sue lacune rispetto ai concorrenti. Altrimenti si perde credibilità, e quando si perde credibilità qualche altro attore pronto ad agire contro i nostri interessi prima o poi emerge. Chi oggi attacca Serraj sa (o crede di sapere) che se il colpo gli riesce non verrà punito, semplicemente diventerà il nuovo interlocutore. L’Italia ha una responsabilità nella debolezza della propria posizione in Libia e a nostro avviso non può scaricare tutte le colpe sulla Francia o su Serraj.
4. È POSSIBILE UN INTERVENTO MILITARE PER OCCUPARE I POZZI LIBICI? SE NO, QUALI ALTERNATIVE HA L’ITALIA PER STABILIZZARE LA LIBIA?
In teoria un intervento è fattibile e non banale. Si potrebbe ipotizzare di prendere i pozzi militarmente e costringere le milizie al tavolo delle trattative, pena la perdita della gestione del petrolio e del gas locali. Ma nella pratica la questione è molto più complessa e richiede soldi e soprattutto ferma volontà politica, che continuano a latitare in Italia, come dimostrato anche dalle recenti dichiarazioni del Ministro dell’Interno Salvini e del Presidente del Consiglio Conte contro qualsiasi ipotesi di intervento diretto a Tripoli. Il problema di una tale operazione è che mentre i terminal sono sulle coste, i pozzi sono profondamente nell’interno, quindi il rischio è che i contingenti inviati ad occuparli siano esposti e isolati. Proprio per questo la strategia andrebbe combinata con accordi con determinate realtà locali e cooptando i principali competitor (Francia in testa). Ovviamente in casi simili il maggiore problema sarebbe proprio quello politico interno all’Italia: immediatamente dopo aver preso e dichiarato questa decisione, si alzerebbe una forte opposizione interna (e nelle piazze) al grido di “neocolonialismo”, “rubare le risorse ai Libici” ecc. Quindi, nella fase preparatoria a un eventuale intervento, sarebbe fondamentale anche un lavoro di informazione sui nostri interessi, sulle conseguenze ecc.
E’ bene considerare che quando si parla di interesse nazionale, una tale soluzione “estrema” di questo tipo non possa essere derubricata a fantapolitica, ma allo stesso tempo non sia certo quella più auspicabile. Tuttavia, per evitare di dover ricorrere a tanto (o, peggio, perdere i propri interessi nell’area) serve appunto un’intensa attività che consenta un dialogo franco e costruttivo con la Francia e crei un accordo da estendere alle fazioni locali.
La soluzione migliore segue quindi tre linee d’azione contemporanee:
1. parlare agli sponsor internazionali delle milizie per un accordo (Francia in primis, ma non solo;
2. includere i vari attori locali perché non si sentano esclusi – spesso hanno una legittimità locale maggiore rispetto alle istituzioni “riconosciute”;
3. essere pronti (e rendere chiaro) che chi non si allinea viene eliminato e che per proteggere i propri interessi l’Italia fa sul serio e potrebbe essere pronta ad agire direttamente.
Queste tre linee, se concordate, possono formare una valida proposta che Roma può avanzare in sede europea e internazionale, sottolineando però che dimenticarne anche solo una rischia di rendere vane le altre due.
Marco Giulio Barone, Lorenzo Nannetti, Simone Pelizza
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