Il 13 settembre 2022 Mahsa Amini fu arrestata all’ingresso della’autostrada Shahid Haghani Expressway dalla Polizia morale incaricata di sorvegliare sulla conformità degli abbigliamenti femminili alla legge islamica. A quanto si è saputo, avrebbe presumibilmente violato la legge iraniana sull’hijab obbligatorio indossandolo «in modo improprio». Due ore dopo viene portata all’ospedale Kasra di Teheran, dove resta in coma per due giorni. Il 16 settembre la giornalista Niloofar Hamedi, poi arrestata, rivela la storia del suo coma. Poco dopo la ragazza muore, nel reparto di terapia intensiva. Secondo le autorità, avrebbe avuto problemi di salute pregressi. Secondo i familiari e altri testimoni, sarebbe stata torturata e insultata nel furgone, per poi svenire una volta arrivata alla stazione di polizia. Ma ci sono voluti 30 minuti perché arrivasse l’ambulanza, e un’ora e mezza per raggiungere l’ospedale. Già il 16 settembre la protesta inizia. «Donna, Vita, Libertà» è lo slogan più gridato. «Più di ventimila arresti, seicento manifestanti uccisi, alcuni impiccati», ha denunciato la Premio Nobel per la Pace 2003 Shirin Ebadi.
Ne parliamo con Germano Dottori. Consigliere scientifico di Limes e già docente di Studi Strategici presso la Luiss-Guido Carli, noto commentatore tv, conosce bene la situazione in Iran, Paese con cui ha molti contatti.
Pensa che capiterà qualcosa di grosso nei prossimi giorni?
Sappiamo per adesso soltanto che si svolgerà una sfida importante, tanto dentro quanto fuori dell’Iran. La diaspora si è messa in movimento e ha finalmente trovato un leader la cui autorevolezza è in crescita progressiva. Il principe Palhavi ha rivolto in questi giorni un appello a tutti gli iraniani, affinché nell’anniversario della morte di Mahsa Amini la nazione iraniana metta da parte le proprie divisioni interne per riappropriarsi del Paese e costruire un futuro post-islamico a Teheran. Ha parlato a tutti: agli operai, agli insegnanti, agli intellettuali, ai militari e persino ai poliziotti. Di fatto è sceso in campo: ed è la prima volta dal 1979 che la famiglia imperiale torna a giocare un ruolo politico d’alto profilo. Probabilmente, il prossimo 16 settembre vedremo quanto pesa davvero Reza Palhevi. Di contro, Masih Alinejad è di fatto quasi sparita. All’interno dell’Iran, invece, è difficile che accadano cose straordinarie: sarebbe una bella sorpresa, ma probabilmente i tempi non sono ancora maturi. Tuttavia, il principe gode di notevoli simpatie anche in patria, dove donne e giovani considerano il Palhavi un leader credibile per condurre l’Iran fuori dalla morsa dell’Islam politico. In Occidente, qualcuno considera erroneamente ancora forti i Mujaheddin e Khalq: in realtà, sono invece privi di seguito e profondamente disprezzati, in ragione della loro scelta in favore di Saddam Hussein durante la dura guerra combattuta da Iran ed Iraq negli anni Ottanta. Gli iraniani sono nazionalisti, non hanno mai perdonato questo tradimento. Giova ricordare che al momento dell’aggressione irachena alla Repubblica Islamica d’Iran non pochi ufficiali monarchici rientrarono in patria per contribuire alla difesa del loro Paese, spesso andando incontro alla prigione o peggio. È quindi inutile sostenere il MeK, come pure qualcuno fa da noi, ovviamente in perfetta buona fede. Inoltre, sono islamisti, al punto che il loro emblema somiglia sinistramente a quello dell’Hezbollah. Difficile che le donne ostili al velo possano emozionarsi per una di loro, come la Rojavi, che gira col capo coperto.
Cosa fa l’opposizione politica? C’è? Era stata scalzata dalla rivolta ma la repressione ha vinto. Cosa può essere efficace? Una congiura di palazzo? Una rivoluzione dall’alto? O una spallata popolare più decisa? Russia-Cina-Iran sono la vera triade che si oppone all’Occidente. Cosa hanno in comune? Eredità imperiale secolare o millenaria, multietnicità ma identità forte, orgoglio per non essere mai stati colonizzati…
La vera opposizione al regime non è nel Palazzo, che pure ha un certo pluralismo al suo interno: esistono forze politiche legali che non condividono la svolta iper conservatrice impressa al regime dal presidente Raisi e si fanno sentire. Anche se gli anti-islamisti sono estromessi dalla rappresentanza nelle istituzioni – la legittimità delle candidature viene vagliata preventivamente da un comitato che valuta le loro credenziali – il problema più acuto dell’Iran non è l’assenza della libertà politica. Si situa invece a un livello più profondo, quello della libertà dei costumi. Molti sognano la laicità dello Stato, la fine del regime religioso e di qualsiasi genere di Stato etico. Il velo è incompatibile con una società che ricorre alla chirurgia estetica come poche altre al mondo. Basta dare un’occhiata a Instagram o Facebook e si scoprono molte cose interessanti: ad esempio, l’orgoglio con cui le giovani persiane esibiscono il cerotto dopo essersi fatte «rifare» il naso. Non è una banalità. Chi vuol essere bella e farsi ammirare, non accetta la censura sul proprio corpo. La repressione che tocca la sfera della vita privata è la più dura da sopportare. Il disagio giovanile si è espresso platealmente nelle proteste dello scorso autunno. Ma si traduce anche nella diffusione delle droghe sintetiche e nella tossicodipendenza. Chi può, cerca di scappare, magari venendo a studiare in Europa, per restare qui oppure dirigersi verso gli Stati Uniti o il Canada, che ospitano comunità iraniane piuttosto significative e anche molto attive politicamente.
I curdi, cosa fanno?
Sono stati la comunità che ha alimentato il grosso delle manifestazioni svoltesi nello scorso autunno e parte dell’inverno. Mahsa Amini era curda in effetti. Tuttavia, il ruolo d’alto profilo svolto dai curdi nelle dimostrazioni ha probabilmente nociuto all’insurrezione quando qualcuno ha pensato di trasformare la lotta in atto per i diritti civili degli iraniani nel principio di un risorgimento nazionale curdo. Il regime se ne è valso per stimolare la reazione nazionalista dei persiani.
E i Beluci?
Anche i Beluci si sono dati da fare, seppure con minore intensità. Valgono per loro le stesse considerazioni fatte per i curdi. Nessun persiano può sottoscrivere la loro causa, se implica la disgregazione del Paese. Il regime lo sa. E ne approfitta.
Il regime ora vanta come successi l’intesa con Riad e l’ingresso nei Brics
Non gli darei troppo peso, se non per sottolineare come quello dei Brics non sia un blocco antagonista all’Occidente, annoverando troppi Stati contrapposti tra loro in ragione di rivalità profonde. Cinesi e indiani sono ai ferri corti. È difficile considerare troppo seriamente il riavvicinamento tra Teheran e Ryiadh, che a mio parere è puramente tattico. L’Iran ha un bisogno estremo di denaro. L’Arabia Saudita può investirvi risorse. Dal canto suo, Mohammed bin Salman è irritato con l’amministrazione Biden, e reagisce a modo suo. Con un bello sgarbo diplomatico. La corte saudita, inoltre, deve anche evitare di farsi spiazzare dagli Stati Uniti, che stanno facendo di tutto per negoziare il ritorno di Teheran all’accordo sul nucleare denunciato da Trump.
La crisi in Israele è un’opportunità per Teheran?
Per l’Iran, certamente no. Per la propaganda del suo regime, invece, sì. Israele ha al suo interno precisamente ciò che vogliono i giovani iraniani scesi in strada lo scorso anno: un Paese in cui se vuoi girare coperto da capo a piedi puoi farlo, mentre accanto passeggiano persone vestite come meglio credono, libere di tenersi per mano, senza che nessuno debba dirgli qualcosa.
Quanto durerà il regime religioso?
È imprevedibile. Il contratto sociale sul quale si basava l’esistenza della Repubblica Islamica è di fatto rotto. Ma le istituzioni islamiche hanno una loro indiscutibile forza militare ed economica che impedisce al momento di essere ottimisti. Il clero ha perso buona parte della legittimazione a governare, ma ha gli strumenti per farlo egualmente, restando al suo posto. I suoi uomini incarcerano e impiccano coloro che vogliono il cambiamento. Anche sul piano internazionale, la causa ha scarso sostegno: gli americani e molti europei, inclusa l’Italia, preferiscono stringere accordi e fare affari con l’Iran. La strada sarà quindi lunga. Ed è probabile che dovranno essere sopportati molti altri lutti: la via non è certamente quella della lotta armata invocata o auspicata da alcuni gruppi privi di seguito. Ma quella della testimonianza della violenza subita, indicata da coloro che sono morti dopo Mahsa Amini: fino al momento in cui neanche i Pasdaran o i Basiji sopporteranno più l’idea di dover sparare o portare al patibolo giovani tra i quali potrebbero esserci i loro figli o nipoti.
Maurizio Stefanini
Romano, classe 1961, maturità classica, laurea in Scienze Politiche alla Luiss, giornalista dal 1988. Specialista in America Latina, Terzo Mondo, movimenti politici comparati, approfondimenti storici.
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