Senza grosse sorprese Mark Rutte si avvia a diventare, per la quarta volta, il futuro premier dei Paesi Bassi. Una conferma che potrebbe avere ricadute importanti in Europa.
Le elezioni parlamentari olandesi si sono svolte in tre giorni, per agevolare l’afflusso degli elettori in tempi di Coronavirus ed evitare assembramenti ai seggi. Il Premier uscente Rutte si è ripresentato al suo elettorato da una posizione di sostanziale forza, nonostante qualche ombra sulla gestione iniziale della pandemia e lo scandalo del rimborso degli assegni familiari. Un’inchiesta parlamentare ha svelato gli abusi commessi dagli esattori delle tasse che, dal 2013 al 2019, avevano chiesto ingiustamente a circa 10mila famiglie meno abbienti la restituzione di sussidi destinati alla cura dei bambini. L’inchiesta lo aveva portato alle dimissioni anticipate.
Tuttavia, l’elettorato lo ha premiato per una scelta di continuità e per una effettiva mancanza di valide alternative. Nei Paesi Bassi vige un sistema elettorale di proporzionale puro, dove ogni partito si presenta singolarmente alle elezioni con un capolista/candidato premier -“Lijsttrekker”- per poi formare un governo di coalizione con altri partiti. L’esecutivo uscente, ad esempio, era formato da una coalizione di quattro partiti: VVD (liberalconservatori), CDA (democristiani), D66 (liberali di sinistra), ChristenUnie (democristiani tendenzialmente più protestanti).
Analizzando il voto per famiglie politiche, si può vedere come i veri vincitori di questa tornata elettorale siano i liberali. Il VVD del Premier Rutte registra un aumento di 2 seggi, arrivando a 35 (solo nel 2012 prese di più: 41); i D66 arrivano a 24 dai 19 delle ultime elezioni, risultato mai raggiunto prima; infine entra per la prima volta in Parlamento il partito “Volt”, un movimento liberale, europeista con 3 seggi. La sinistra esce malamente da queste elezioni: il GroenLinks (un partito rossoverde) scende a 7 seggi dai 14 precedenti.
Sorte lievemente migliore è toccata al il Partito Socialista (SP), a 9 seggi dai 14 precedenti. Il nome di questa formazione non deve trarre in inganno. L’SP nasce nei primi anni ’70 da una costola del Partito Comunista Olandese (CPN), inizialmente con il nome di “Partito Comunista dei Paesi Bassi/Marxista-Leninista” (KPN/ML), ex componente maoista del CPN. Ritenuto pericoloso, oltre che un potenziale concorrente, anche dal Partito Comunista ufficiale, fu tenuto sotto stretta sorveglianza da parte dei servizi segreti olandesi durante tutti gli anni ’70, soprattutto mediante infiltrati e “agent provocateur”. Basti pensare che uno dei suoi segretari nazionali, Pieter Boevé, era un agente dei servizi di intelligence, ma la sua copertura saltò e venne espulso dal partito. Nel 1972 cambiò il nome nell’attuale SP. I “cugini” di SP, il Partito del Lavoro (PvdA, laburisti) rimangono a 9 seggi, senza grossi scossoni.
Le differenze più evidenti nelle due formazioni di sinistra olandesi, sono che il PvdA è pro mercato, tendenzialmente più disponibile ad accordi per formare un governo (è stato al governo anche con Rutte) ed è europeista. L’SP, al contrario, è fortemente statalista, non vuole fare accordi di governo (con una durezza che ricorda il M5S delle origini) ed fortemente critico con l’Ue.
Il vero discrimine tra le due formazioni tuttavia è l’immigrazione. I laburisti sono per le frontiere aperte (seppure sotto il controllo di missioni Ue e accordi con Paesi terzi). Gli altri, al contrario, sono per una chiusura netta nei confronti dei migranti (europei compresi).
Rimanendo sempre a sinistra, perde un seggio il partito DENK, un movimento nato da una scissione del PvdA, che ha nel multiculturalismo la sua agenda principale (i due maggiori leader Kuzu e Öztürk, sono di origine turca). Il seggio perso da DENK andrà, con ogni probabilità alla formazione BIJ1, un partito antirazzista e attento ai diritti delle minoranze.
Cambiamenti minimi anche all’interno dei popolari: il CDA perde 4 seggi, invariati i protestanti di CU. La famiglia sovranista si è presentata divisa, ma tutto sommato non perde molto. Al contrario, il Forum Voor Democratie (FvD) arriva a 8 seggi dai due della precedente legislatura. L’FvD è un partito euroscettico, nazionalista e che vorrebbe un utilizzo da parte dello Stato di piattaforme digitali per far decidere ai cittadini su tematiche importanti per il Paese, in una sorta di assemblea continua. Proprio per il rischio di una deriva assembleare, il movimento nel dicembre 2020 ha subito una scissione: nacque così “Ja21” (Juiste Antwoord 2021, “Risposta corretta”), un partito identitario, euroscettico che si propone come ponte tra i delusi dal VVD di Rutte e quelli del PVV e l’altro partito euroscettico guidato da Geert Wilders.
Il partito sovranista per eccellenza è il Partito per la Libertà (PVV, “Partij voor de Vrijheid”), fondato nel 2004 da Geert Wilders, che ha raccolto il testimone ideologico e identitario di Pim Fortuyn, il politico ucciso nel 2002 dopo che uscì dal VVD per le posizione troppo liberali del partito su Europa e immigrazione.
Il PVV è, come i precedenti, un partito identitario, nazionalista ed euroscettico, ma nell’agenda è riservato il posto principale all’islamofobia. Spesso è in prima fila nell’organizzare manifestazioni contro le moschee (insieme a Pegida Nederland, l’organizzazione islamofoba tedesca).
Raggiunge un seggio il Partito dei cittadini-coltivatori (BoerBurgerBeweging, abbreviato BBB), un partito nato dalle proteste dei coltivatori contro le politiche del governo, simili alle proteste dei gilet gialli francesi di due anni fa.
La maggioranza uscente poteva contare su una base parlamentare di 75 voti favorevoli. Nel caso si dovesse formare un governo con gli stessi attori, i voti salirebbero a 79 (grazie all’exploit dei D66).
C’è anche un fattore di politica europea da non sottovalutare. A settembre Angela Merkel abbandonerà il posto di Cancelliera, che occupa dal 2005, lasciando il titolo di “Premier più longevo d’Europa” proprio al liberalconservatore Mark Rutte (guida i Paesi Bassi dal 2010). Senza l’opera di mediazione di Frau Merkel, Rutte potrebbe avere un maggior peso specifico nelle contrattazioni con gli altri partner europei. Proprio per questo, la scorsa estate, insistette così tanto per inserire la clausola del “freno di emergenza”, in caso qualche Paese si dimostrasse non in linea con gli impegni assunti su come investire i soldi del piano NGEU. Ma per guidare, almeno temporaneamente, la politica europea avrà bisogno di stare tranquillo in casa propria: per questa ragione non è da escludere che allarghi la maggioranza a qualche altro partito, magari a Volt.
Michele Rosini
Nato a Livorno nel 1989, studia studia Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso l'Università di Pisa. Appassionato di geopolitica e politica italiana. Europeista e atlantista, parla fluentemente inglese e spagnolo, un po' di tedesco e di olandese.
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