Nel settembre del 2013, Robin Wright, analista per il New York Times, scrisse un articolo ardito sulla possibile disgregazione del Medio Oriente, ipotizzando la suddivisione di Siria, Iraq, Yemen, Arabia Saudita e anche della Libia in nuovi micro-stati, ripartiti a seconda delle proprie etnie e confessioni. Un disegno che avrebbe modificato per sempre i confini nazionali cui siamo abituati.
Nel nuovo mappamondo del NYT, un Paese come la Libia sarebbe tornato alla classica suddivisione regionale di Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, con un ruolo da protagonista della città di Misurata, nuova capitale della Tripolitania al posto di Tripoli, simbolo di un’epoca ormai scaduta.
Stessa ipotesi veniva fatta per lo Yemen, dove il territorio sarebbe tornato alla suddivisione precedente al 1990 quando, a seguito della dominazione britannica conclusasi nel 1967 e dopo anni di scontri tra le tribù locali, nord e sud si unirono nell’attuale Repubblica dello Yemen. Nell’ipotesi, Aden sarebbe tornata a essere capitale dello Yemen del Sud e Sanaa dello Yemen del Nord.
La spartizione di Siria e Iraq
Per quanto riguarda la Siria e l’Iraq, invece, la disgregazione del territorio avrebbe visto la sparizione definitiva dei due Paesi e la contestuale nascita di quattro nuove entità statuali:
– il Kurdistan, stabilito lungo la fascia nord che va dall’attuale confine turco fino al Kurdistan iracheno, con capitale Erbil;
– lo Shiitestan, con capitale Baghdad, corrispondente all’attuale meridione del Paese, dove vive la popolazione musulmana sciita e dove il governo mantiene ancora il potere;
– il Sunnistan, ovvero l’area a maggioranza sunnita che ingloberebbe un’area immensa che sul lato siriano va da Aleppo sino al confine giordano e che in Iraq si estende da Mosul fino alla grande provincia di Anbar, il cui capoluogo è Ramadi;
– l’Alawitestan, ovvero la fascia occidentale della Siria che corrisponde più o meno alla porzione di territorio dove oggi mantiene ancora il controllo il governo di Damasco e che, partendo da sud si snoda lungo l’area di confine con il Libano, fino a tutta la zona costiera che affaccia sul Mediterraneo e che a nord arriva fino al confine con la Turchia (esclusa Aleppo).
L’aderenza dell’analisi con la realtà della guerra
Quest’ipotesi di scuola, a due anni di distanza e con il proliferare della grande guerra del Medio Oriente, è divenuta terribilmente aderente alla realtà, e ciò è particolarmente evidente in Yemen, Siria e Iraq. Qui ciò che Robin Wright pronosticava, si è infatti realizzato, almeno temporaneamente.
Il Sunnistan esiste praticamente già e, anche se va sotto il nome di Califfato, corrisponde al territorio conquistato dalle milizie di Abu Bakr Al Baghdadi, dove oggi lo Stato Islamico (ISIS) non solo torreggia ma ha già predisposto un’amministrazione tipica di uno Stato vero e proprio, con tanto di targhe, passaporti, tribunali, polizia locale, stipendi e pensioni. È questo il caso più avanzato di nascita di un nuovo Paese.
Per quanto riguarda lo Shiitestan, ormai il governo di Baghdad gestisce e controlla soltanto le regioni sciite che dal Golfo Persico e dal confine iraniano lambiscono la capitale e la provincia di Anbar, cioè quella frontiera labile e contesa dove si verificano i più violenti scontri con i jihadisti di Mosul.
Anche l’Alawitestan in Siria è una realtà, sia pure informalmente. La guerra civile-confessionale lo sta rendendo evidente ogni giorno di più. L’esercito siriano, infatti, si sta progressivamente ritirando per proteggere le grandi città in cui si trova la maggior parte della popolazione sciita-alawita, ovvero la gente del presidente Bashar Al Assad. E una fonte interna al governo di Damasco afferma testuale: «La divisione della Siria è ormai un fatto inevitabile. Il regime vuole controllare la costa, le due città centrali di Hama e Homs e la capitale Damasco. Le linee rosse per le autorità sono oggi l’autostrada Damasco-Beirut e l’autostrada Damasco-Homs, così come la costa con le città di Latakia e Tartus».
Un simile scenario si sta replicando in Yemen dove l’insurrezione dei ribelli Houthi ha creato una spaccatura che potrebbe riportare l’orologio al Novecento, quando la punta estrema della penisola araba aveva due stati e due capitali: a nord la Repubblica Araba dello Yemen a maggioranza sciita e a sud la Repubblica Democratica Popolare dello Yemen, a maggioranza quasi esclusivamente sunnita.
Il caso libico
Più incerte le aderenze con la Libia. La caduta del colonnello Gheddafi ha liberato le forze centrifughe e determinato una situazione di guerra civile nella quale la Tripolitania, dove il governo è nelle mani del fragile esecutivo guidato dal premier Faiez Al Serraj designato dall’ONU, resta sotto scacco da parte delle forze islamiste. Resta grande incertezza anche nella fascia interna della regione, dove le tribù berbere adottano una politica indipendente.
In Cirenaica il governo di Tobruk e le forze armate guidate dal generale Khalifa Haftar faticano a riprendere le redini della guerra civile e ad avere la meglio sulle forze jihadiste rappresentate dalle ultime sacche di resistenza di Stato Islamico e Al Qaeda. I jihadisti libici, strisciando a suon di bombe e incursioni lungo la costa mediterranea tra Sirte, Bengasi e Derna, rimangono una serpe in seno per i governi di Tripoli e Tobruk. Solo nel Fezzan, dove la giurisdizione è pertinenza dei gruppi etnici berberi, touareg e tebu, regna una calma relativa.
La destabilizzazione in Arabia saudita
L’Arabia Saudita, il potente regno sunnita wahhabita della famiglia Saud, non è immune da rischi, seppure l’ipotesi americana in questo caso sia ancora lungi dal divenire realtà. Non è un segreto che molte forze straniere avversino il grande potere che Riad esercita su tutto il Medio Oriente e oltre. A ben vedere, sembra quasi che ciò che accade oggi ai confini sauditi (e in parte anche all’interno del Paese, con attentati e contestazioni in aree a presenza sciita) sia una sorta di accerchiamento progressivo volto a isolare e strozzare il Paese, ordito o favorito con ogni probabilità dall’Iran. È in questo senso che vanno lette le mosse di Riad e la guerra preventiva in Yemen, che tenta di soffocare la ribellione Houthi per evitare il contagio. Il destino del Paese dipenderà dalle prossime mosse dell’erede al trono saudita, il principe trentatreenne Mohammed Bin Salman.
A conferire un ulteriore senso d’inquietudine sono anche le recenti parole di Moqtada al-Sadr, la controversa guida religiosa sciita, grande protagonista dell’insurrezione irachena contro le truppe americane di occupazione durante la Seconda Guerra del Golfo, che ha creato uno “Stato nello Stato” a Sadr City, l’inespugnato quartiere sciita di Baghdad.
Al Sadr non esclude che presto anche in Arabia Saudita ci possa essere una «Primavera Araba contro le correnti interne al governo saudita che alimentano l’estremismo sunnita (il riferimento è allo Stato Islamico, ndr) e che gli ultimi episodi di sangue (come l’attentato alla moschea sciita di Qatif, ndr) sono destinati a ripetersi».
Per dirla con Robin Wright, insomma, «la Primavera Araba è stata solo la miccia. Gli arabi non volevano solo cacciare i dittatori, ma volevano un potere decentrato che riflettesse l’identità locale o il diritto di accedere alle risorse». Se quanto preconizzato dal NYT avverrà sarà solo la storia a dircelo. In ogni caso, è evidente ogni giorno di più come i campi di battaglia si stiano ampliando e fondendo tra loro, alimentando un conflitto che sia come sia avrà conseguenze enormi e prolungate per tutto il Medio Oriente.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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