Presentato l’8 ottobre a Roma il Rapporto 2019 sull’Economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa. In un’Italia che invecchia sempre più rapidamente, i migranti sono un’opportunità da cui ripartire.
«Trasformare il cambiamento in miglioramento». Oltre le statistiche, l’andamento dei flussi, le strategie per il presente e le prospettive per il futuro, in Italia c’è anzitutto bisogno di una nuova visione dell’immigrazione. Un passaggio fondamentale per modificare la percezione e la comprensione di un fenomeno che da “pericolo” deve essere inteso come “risorsa”.
Solo così si potranno valorizzare le qualità di chi arriva nel nostro paese per fermarsi, cercare un lavoro e costruire una nuova vita. È questo il messaggio emerso nel corso della presentazione, tenutasi a Roma, del Rapporto 2019 sull’Economia dell’Immigrazione della Fondazione Leone Moressa. La nuova edizione dello studio ha come focus la generazione dei “millennials”, e dunque quelle centinaia di migliaia di giovani – italiani e non – per cui il nostro Paese può e deve fare di più.
Sfogliando le pagine del Rapporto, uno dei numeri che balza di più all’occhio riguarda infatti il costo della fuga dei giovani dall’Italia: negli ultimi dieci anni sono stati quasi 500mila, metà dei quali tra i 15 e i 34 anni. Un abbandono di massa, causato principalmente dalle scarse opportunità occupazionali e che è pesato sulle casse dello Stato per 16 miliardi di euro, oltre 1 punto percentuale di Pil.
A questa cifra si aggiunge l’alto tasso di “Neet” (vale a dire coloro che non studiano né lavorano), il più alto d’Europa con una media del 30,9% (contro la media Ue del 17,1%), e il costante declino demografico. In Italia si continuano infatti a fare pochi figli (mediamente 1,32 per donna), il saldo tra nati e morti è negativo da oltre 25 anni e, secondo l’Istat, nel 2038 gli over 65 saranno un terzo della popolazione (31,3%).
Stranieri residenti: 5,2milioni
Nel complesso queste tendenze determineranno squilibri economici e finanziari per scongiurare i quali l’Italia non può più continuare a considerare un peso i 5,2 milioni di stranieri residenti stabilmente nel nostro paese (l’8,7% della popolazione totale a fine 2018). Quella che viene vista erroneamente come una “popolazione nella popolazione” sta infatti contribuendo in modo sempre più rilevante al bilancio economico dello Stato.
Nel 2018 i lavoratori stranieri registrati sono stati 2,5 milioni, pari al 10,6% degli occupati totali, con una ricchezza prodotta stimata in 139 miliardi di euro, ossia il 9% del Pil nazionale. Gli stranieri in Italia svolgono principalmente mansioni non qualificate (33,3%), mentre il 60% si divide tra operai, artigiani, commercianti e impiegati. A questi si aggiungono oltre 700mila imprenditori nati all’estero (9,4% del totale).
A livello fiscale per l’Italia si tratta di un tassello fondamentale che contribuisce a tenere in piedi il Sistema Paese. I contribuenti stranieri sono 2,3 milioni per un gettito Irpef di 3,5 miliardi di euro (su un ammontare di 27,4 miliardi di redditi dichiarati) e 13,9 miliardi di contributi previdenziali versati.
La balla dell’invasione
In questa riserva di forza lavoro la presenza di immigrati di origine africana è rilevante ma non preponderante come vogliono far credere determinati media e parti politiche. Nella classifica delle prime quindici nazionalità di provenienza della popolazione straniera residente in Italia per cittadinanza, quattro sono africane: in testa c’è il Marocco (terzo posto con 422.980 residenti), seguito dall’Egitto (decimo posto, 126.733 residenti), dalla Nigeria (dodicesimo posto, 117.359 residenti) e dal Senegal (quattordicesimo posto, 110.242 residenti).
Bastano già questi numeri per smontare una delle tante fake news che circolano sulla presunta “invasione di africani” in Italia. Prima dei marocchini, il maggior numero di stranieri residenti nel nostro Paese è infatti di origine romena e albanese.
Ma non solo. C’è infatti un altro dato, riflesso sull’intero Vecchio Continente, che deve far riflettere. A differenza dell’Italia, dove sono quasi nulli i rilasci di permessi ingresso per lavoro, vi sono altri stati che invece si stanno mostrando aperti ai migranti economici tanto demonizzati nel nostro Paese, vedendo in loro quella leva necessaria per far accelerare l’economia e tamponare il calo demografico.
Questa diffusa percezione distorta di ciò che sta avvenendo in Europa è stata sintetizzata da Helena Winiarska, funzionaria della Commissione europea. «Un terzo degli europei pensa che ci siano più migranti irregolari che regolari in Europa – ha spiegato – Ma non è così. Nonostante i media trasmettano continuamente immagini di barconi che arrivano sulle coste europee del Mediterraneo, sono i cinesi gli stranieri che si stanno spostando di più nel nostro continente, e non gli africani».
Cambiare approccio
Di fronte a queste dinamiche e a questi numeri l’Italia deve dunque chiedersi se e quanto effettivamente le convenga chiudere i porti e le frontiere, nel mentre altri paesi attraggono i suoi giovani o modificano il loro approccio nei confronti degli stranieri in cerca di lavoro. Secondo Fortunato Lambiase del ministero dell’Economia e Finanze in tal senso è necessario spostare il dibattito sull’immigrazione sul piano prettamente analitico e porsi delle domande sulla reale attrattività del nostro paese non più soltanto nei confronti delle imprese estere, ma anche verso quelle singole persone – e quei tanti giovani – che provengono da altre nazioni e da altri continenti.
Per Paola Alvarez dell’Oim (Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo) il passo che andrebbe compiuto non solo in Italia ma a livello globale, è concepire l’immigrazione in un modo nuovo: non come il risultato della mancanza di sviluppo in certi paesi piuttosto che in altri, ma come un fattore insito nel cambiamento sociale.
«Ciò ci permetterebbe da una parte di avviare un dialogo più aperto con i paesi di origine e transito dei flussi migratori – ha detto – dall’altro di ripensare le cause delle migrazioni non come processi lontani o scollegati dai paesi di destinazione, ma come elementi connessi a un processo decisionale che deve tenere uniti tutti i paesi e di cui tutti i Paesi devono sentirsi responsabili».
«Perché chi emigra nella maggior parte dei casi ha un progetto – ha concluso i lavori Antonio Payar di Confartigianato imprese – gli immigrati sono “intra-prenditori”, nel senso che tentano di intraprendere qualcosa. E questo è un qualcosa che ai nostri millenials, invece, manca».
Rocco Bellantone
Caporedattore di Babilon, giornalista professionista, classe 1983. Collabora con le riviste Nigrizia e La Nuova Ecologia di Legambiente. Si occupa di Africa, immigrazione e ambiente.
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