Il New York Times ha confermato la morte di Abdullah Ahmed Abdullah, nome di guerra Abu Mohammed al Masri, numero due di Al Qaeda, assassinato il 7 agosto di quest’anno insieme alla figlia in una via di Teheran. Un’azione segreta condotta dal Mossad israeliano, «un favore operativo all’alleato statunitense», ha scritto il giornalista Guido Olimpio. Secondo l’articolo del New York Times, le ragioni per cui Al Qaeda non ha ancora riconosciuto la morte di al Masri, dopo tre mesi, restano abbastanza oscure. 

Così il giornalista Guido Olimpio su Facebook racconta la morte di Abu Mohammed al Masri:

Il 7 agosto del 1998 Abdullah Ahmed Abdullah, nome di guerra Abu Mohammed al Masri, organizza il doppio attentato contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania. Il primo degli attacchi strategici di al Qaeda. Il 7 agosto di quest’anno il terrorista è stato ucciso. È una storia dalle molte implicazioni, accompagnata da un’infinità di versioni. E ripartiamo dunque dalla prima, quella diffusa dalle fonti del quotidiano. Sono le 21 del 7, il presunto Abdullah è in auto insieme a una delle figlie, Myriam. All’improvviso una moto si accosta alla vettura e uno degli uomini a bordo spara con una pistola dotata di silenziatore. Quattro colpi su cinque centrano i bersagli. Le autorità raccontano che la vittima è un libanese, il professore Habib Daud mentre i media mediorientali ipotizzano si tratti di un esponente dell’Hezbollah. Niente conferme, nessuno ha mai sentito parlare dell’insegnante. Gli interrogativi si sommano alla tesi su incidenti e attentati che hanno colpito in estate i siti iraniani, compreso il centro nucleare di Natanz, danneggiato da un sabotaggio. I pasdaran danno la caccia alle spie. I loro avversari li logorano con fughe di notizie.

Pochi giorni fa l’agguato riemerge, gira la notizia che lo sconosciuto insegnante sia il qaedista Abdullah, egiziano, ricercato dall’FBI e sulla cui testa c’è una taglia da 10 milioni di dollari. Poi lo scoop del giornale, subito smentito dal regime in imbarazzo. Il servizio segreto israeliano ha una tradizione di attacchi mirati in Iran, nel tempo ha eliminato diversi scienziati, agguati dove spesso sono comparse le moto e cariche esplosive. Attacchi resi possibile da un lavoro di intelligence, dalla presenza di informatori. Per anni Gerusalemme ha seguito la regola di missioni «bianco e blu», ossia dove erano gli israeliani ad agire, successivamente si sarebbero affidati anche agli stranieri. E nel caso iraniano potrebbero aver usato membri dell’opposizione interna. Ma non escludiamo neppure che la narrazione serva a proteggere i veri esecutori. La strategia degli omicidi mirati serve a liquidare il nemico ed è utile per seminare insicurezza. Evidente il messaggio: il Mossad è in grado di scoprire un personaggio di livello, lo «termina» e offre il successo agli Stati Uniti. Che hanno dato appoggio esterno con gli apparati elettronici. Lo hanno filato, sorvegliato e quando è stato il momento hanno passato quella che una volta era conosciuta tra gli israeliani come la «pagina rossa», l’ordine di ammazzare scritto con un inchiostro di quel colore.

Il secondo spunto dell’intrigo è la presenza dei seguaci di bin Laden nella capitale di uno stato nemico dell’estremismo sunnita. Nessuna sorpresa. Dopo il 2001, con la sconfitta talebana, numerosi dirigenti jihadisti si rifugiano proprio in Iran. Ci sono Abdullah, Seif al Adel e altri quadri egiziani, con loro una delle mogli di Osama, Khairiah, e alcuni figli, compreso il prediletto Hamza che sposerà Myriam, la ragazza morta nell’imboscata. Nelle lettere scritte da bin Laden e trovate ad Abbottabad c’erano riferimenti precisi al paese e il capo temeva che gli 007 iraniani infilassero un microchip sotto pelle al figlio Hamza per seguirne le mosse.

I pasdaran, in realtà, li tengono in residenze speciali, alcuni finiscono in prigione. I mullah se ne fanno scudo per evitare attentati all’interno e li conservano come pedine in scambi. Indagini italiane dell’epoca tracciano contatti telefonici tra questo nucleo e un elemento che si muove nel quartiere di Porta Venezia a Milano, zona dove sono presenti estremisti nord africani. Lo chiamavano il fortino.

Più volte gli Usa denunciano le coperture, gli ayatollah negano. Dopo il 2011 le autorità permettono a diversi esponenti di lasciare il paese. Hamza finirà in Afghanistan, dove sarà incenerito da un raid statunitense. Stessa fine per altri due compagni d’avventura, Abu Khayr al Masri, altro genero di Abdullah, e Khalid al Aruri. Entrambi sono dilaniati da missili con lame rotanti lanciati sempre da droni statunitensi, erano in Siria con la micro-fazione Hurras al Din. Mesi difficili per il movimento, con il leader Ayman Zawahiri, forse deceduto un mese fa nel suo giaciglio e per malattia.

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Il profilo di Ayman Al Zawahiri tratto dal libro I semi del male. Da Al Qaeda a ISIS la stirpe del terrorismo, dei giornalisti S. Piazza e L. Tirinnanzi

Il medico egiziano Al Zawahiri è colto e molto astuto, e non si farà più sedurre dal mezzo televisivo, dopo le comparsate dei primi anni. Limiterà il ricorso a video e audio allo stretto necessario. Impossibile quindi localizzarlo e venire a contatto con lui. Vive da recluso e non si lascia avvicinare da nessuno, se non da un ristretto gruppo di fedelissimi. Nato in una famiglia agiata di magistrati, letterati e medici, inizia la sua carriera politica come membro adolescente dei Fratelli musulmani del Cairo. Lì forma la sua prima cellula sotterranea volta alla creazione di uno Stato islamista, denominata Jihad Islamica Egiziana. Ma la famiglia gli impone di iscriversi alla scuola di medicina, e lui obbedisce. Nel 1985 compie un viaggio religioso in Arabia Saudita, quindi va in Afghanistan per combattere i sovietici. Durante questo peregrinare incontra Osama Bin Laden, che sta fondando il MAK. Quando il saudita compie il salto di qualità creando «La Base», il medico chirurgo gli porta in dote la sua organizzazione. Al Zawahiri diventa così anche il medico personale di Bin Laden, e suo consulente.

Negli anni successivi si distinguerà per la pianificazione di diversi attentati: l’attacco del 1995 all’ambasciata egiziana a Islamabad; la strage di Luxor nel 1997; i multipli attentati del 1998 alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania. Colleziona anche un arresto in Daghestan nel 1996: accusato dai russi di reclutamento al Jihad in Cecenia, sconta appena sei mesi di carcere. La circostanza del suo rilascio verrà descritta così da Sergei Ignatchenko, portavoce dell’FSB, il servizio segreto del Cremlino: «Aveva quattro passaporti, con quattro diversi nomi e quattro diverse attestazioni di cittadinanza. Abbiamo cercato di condurre una verifica in ognuna di queste nazioni, ma non è stato possibile avere nessuna conferma su di lui. Non potevamo trattenerlo per sempre e così lo abbiamo portato al confine con l’Azerbaigian e lo abbiamo rilasciato».

Alla fine del 2001, la prima moglie di Al Zawahiri e due dei suoi sei figli muoiono in un attacco aereo americano in Afghanistan. Da quel momento, Al Zawahiri si dedica esclusivamente alla gestione dell’organizzazione terroristica e agli studi teologici, che nel 2008 lo portano a pubblicare il libro L’assoluzione (Al Tabria), nel quale il medico egiziano teorizza le linee guida per il futuro del Jihad. I servizi segreti occidentali lo cercano inutilmente, anche se per i pakistani è certo che si trovi nelle aree tribali al confine afghano-pakistano (dove, secondo più fonti, si troverebbe tuttora). La maggior fortuna di Al Zawahiri in quest’epoca risiede senz’altro nel fatto che CIA, MI6, FSB, Mukabarat e molte altre agenzie d’intelligence stanno ancora dando la caccia al suo capo, e si curano poco invece del vero leader in pectore. Al Zawahiri prende così ufficiosamente le redini dell’organizzazione e, nonostante l’ascesa dello Stato Islamico negli anni Dieci del nuovo millennio, la sua fase alla guida dell’«internazionale del terrore» corrisponde a un consolidarsi progressivo di Al Qaeda nei cinque continenti. Al Zawahiri dimostrerà così che il Jihad ha inaspettate capacità di resilienza e adattamento ai tempi che cambiano.