Robert Mugabe, ex Presidente dello Zimbabwe, è morto a Singapore venerdì 6 settembre, all’età di 95 anni. Riflettere sulla sua figura è un grande esercizio per comprendere il Continente nero, soprattutto perché il Mugabe che vediamo in Occidente non è il Mugabe che vedono in Africa.
Per molti africani Mugabe resta una speranza disattesa, un’icona potente che alcuni osservatori hanno paragonato a un personaggio shakespeariano, un leader per la cui scomparsa, nonostante tutto, non si riesce né a gioire, né a piangere.
A chi lo definisce un dittatore c’è chi risponde esaltandone il ruolo nella liberazione dello Zimbabwe, per quanto i trent’anni del suo dominio siano stati caratterizzati da costanti violazioni dei diritti umani. Ed è qui il nodo cruciale: la giustificazione dei mezzi tramite i fini. Nessuno nega che Mugabe abbia combattuto contro l’apartheid, però nessuno nega nemmeno che abbia massacrato gli Ndebele, né che abbia portato lo Zimbabwe nel baratro economico – con l’ambiguità della comunità internazionale, – né che con l’obiettivo di correggere le storture coloniali abbia consentito che la redistribuzione delle terre fosse accompagnata da stupri di massa su base etnica. Tutti sanno com’è andata, perché è stato lui ad ammetterlo.
Come mai, allora, c’è chi continua a difendere Mugabe? La risposta è una soltanto: per quello che ha rappresentato per le cause anticoloniale e panafricana. Sembra riduttivo, ma è così. È una questione di memoria collettiva, di condivisione del vissuto africano e di esperienza diretta. Non bisogna dimenticare che ciò che l’Occidente chiama genericamente “colonialismo”, per gli africani magari è il ricordo fisico di un calcio in faccia – in Zimbabwe come in Somalia o in Congo.
Questa dinamica, tuttavia, è anche il motivo per il quale nel Continente stanno emergendo richieste di rinnovamento, con i partiti post-coloniali in difficoltà. Per i giovani comincia a non avere più senso mantenere il potere nelle mani delle generazioni che hanno condotto la lotta di liberazione. Il passato resta un punto di riferimento, ma l’assenza di un legame immediato con gli eventi e la voglia di cambiamento rendono inevitabile il giudizio negativo nei confronti di classi dirigenti che hanno disatteso gli ideali dell’indipendenza, talvolta consentendo per interessi personali che il colonialismo di un tempo proseguisse sotto altre forme. In questo senso la morte di Mugabe potrebbe rappresentare per l’Africa un altro punto di rottura con il passato, con un avvertimento: il vecchio leader se n’è andato, ma il suo sistema è ancora lì, sostenuto anche da quegli attori esterni – oggi soprattutto la Cina – che ritengono la vecchia via più sicura degli orizzonti potenziali.
Beniamino Franceschini, Il Caffé Geopolitico
Mugabe was born on February 21 in what was then British-ruled Southern Rhodesia. He was the son of Bona and Gabriel, a carpenter. AP PHOTO
Beniamino Franceschini
Classe 1986, toscano, laureato in Studi Internazionali e dottorando di ricerca in Scienze Politiche all’Università di Pisa, specializzato in geopolitica e marketing elettorale, analisi politica con focus sull’Africa subsahariana.
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