La Russia consolida la propria presenza nel Caucaso meridionale inviando un contingente di peacekeeper. La pace, tuttavia, resta un miraggio lontano.
IL CAUCASO MERIDIONALE: UN NEAR ABROAD DA RICONQUISTARE
Non è una novità: uno dei principali obiettivi di politica estera perseguiti dal Cremlino è il ripristino del controllo sul proprio Near Abroad, l’area costituita dai territori ex-sovietici che, dal 1991 ad oggi, hanno costantemente risentito dell’influenza russa. Ecco perché la partita giocata in Nagorno Karabakh ha un notevole valore strategico per Mosca: se la Russia giocherà bene le sue carte, potrà preservare il controllo sull’Armenia e addirittura stringere la presa su Azerbaijan e Karabakh. La ripresa del conflitto, il 27 settembre scorso, ha quindi offerto al Cremlino l’opportunità di giocare, ancora una volta, il ruolo di ago della bilancia nella regione. Dopo più di un mese di scontri armati, a fronte dell’avanzata azera nei territori contesi, Mosca è intervenuta come mediatrice fra i due Paesi nemici, offrendo la possibilità di stipulare un cessate il fuoco. In questo modo, con l’accordo del 10 novembre scorso, la Russia ha raggiunto un obiettivo tanto ambizioso, quanto determinante per gli equilibri della regione: uno dei punti concordati dalle parti, infatti, prevede l’invio di truppe di peacekeeper russi, con lo scopo di monitorare la porzione di Nagorno-Karabakh rimasta sotto il controllo armeno e il corridoio di Lachin, attualmente amministrato da Baku. Di fatto, grazie all’accordo, Mosca è riuscita a introdurre le proprie forze militari nell’area con il benestare delle parti per un periodo di 5 anni, che tuttavia potrà essere ulteriormente prolungato.
Fig. 1 – Un gruppo di peacekeeper russi sorveglia un checkpoint lungo il corridoio di Lachin, a pochi chilometri da Stepanakert, 29 novembre 2020
UN INTERVENTO CONTROVERSO
L’intervento russo nei territori contesi suscita alcune perplessità: il personale militare impiegato da Mosca nell’area, infatti, è superiore a quello inizialmente definito dall’accordo. Inoltre, pochi giorni dopo la firma del cessate il fuoco, Putin ha emesso un ordine esecutivo che stabilisce la creazione di un Centro interdipartimentale per la risposta umanitaria in Nagorno Karabakh, il cui personale, specializzato nella gestione delle emergenze umanitarie e nella ricostruzione delle infrastrutture civili, si aggiungerà ai peacekeeper originariamente previsti. Il Cremlino, quindi, sta progressivamente consolidando la propria posizione nell’area, gettando le basi per un controllo sempre più capillare e impedendo alle potenze concorrenti, in primis la Turchia, di imporsi e di esercitare la propria influenza. Sotto questo punto di vista appare molto significativa la considerazione espressa da Thomas de Waal, secondo il quale “la Russia del Presidente Vladimir Putin non sta davvero svolgendo attività umanitaria. Il suo obiettivo è ripristinare il controllo sul Caucaso meridionale”.
L’intervento di Mosca nell’area appare ancora più controverso se si considera che le operazioni russe violano le norme internazionali che regolano l’attività di peacekeeping. Infatti l’assenza di un mandato ufficiale da parte delle Nazioni Unite rende l’intervento pianificato dal Cremlino formalmente illegittimo e privo di fondamento legale. Nonostante le irregolarità dell’intervento, le Nazioni Unite non si sono opposte a Mosca, confermando, di fatto, il monopolio russo sulle operazioni di peacekeeping nei Paesi ex-sovietici.
Fig. 2 – Un’anziana abitante di Lachin cammina lungo una strada sorvegliata dai peacekeeper, 26 novembre 2020. La popolazione locale si trova ad affrontare una quotidianità segnata dalla presenza delle Forze Armate russe
LA PACE È ANCORA UN MIRAGGIO?
La Russia, presentandosi come la protettrice dei Paesi colpiti dalla guerra, è riuscita a imporre la propria presenza nel Caucaso meridionale. Tuttavia l’approccio adottato dal Cremlino ha suscitato grande delusione in Armenia, la quale, nonostante l’alleanza con la Russia, non ha goduto del suo aiuto militare durante il conflitto con l’Azerbaijan. Infatti gli interessi russi nell’area transcaucasica sono talmente vasti che offrire il proprio aiuto incondizionato a Yerevan avrebbe potuto allontanare Mosca da Baku, fornendo terreno fertile ad Ankara per rafforzare il proprio legame con l’Azerbaijan. Questi eventi hanno suscitato nella popolazione armena un senso di delusione verso il Cremlino, che si accompagna al timore che presto la presenza russa possa innescare dinamiche di controllo simili a quelle che hanno caratterizzato il periodo sovietico. Inoltre, nonostante il cessate il fuoco, nelle ultime settimane si sono verificati degli scontri tra le forze armene e quelle azere in territori che risultano tuttora contesi. Questi episodi dimostrano che l’accordo patrocinato da Putin a novembre ha lasciato molte zone d’ombra, trascurando la definizione di uno status preciso per le aree oggetto di disputa. L’odio atavico fra i due contendenti e la scarsa chiarezza degli accordi, quindi, stanno compromettendo gravemente l’efficacia dell’azione dei peacekeeper russi, che al momento sembrano più uno strumento per la realizzazione di un grande progetto imperialistico che un reale contingente umanitario.
Di Chiara Soligo. Pubblicato su Il Caffè Geopolitico
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