Il presenzialismo di Mosca in Europa Orientale, Medio Oriente e nel Mediterraneo ha dato nuovo vigore all’Alleanza Atlantica, che così ha ritrovato il suo vecchio nemico di sempre. Anche se, in realtà, le intenzioni sono meno guerrafondaie di quanto racconti l’apparenza
«Siamo irrevocabilmente europei, solo con un sedimento asiatico sul fondo dell’anima». Così il filosofo russo Vladimir Solovev, alle porte del Ventesimo secolo, faceva esprimere il Politico nel secondo dialogo delle sue Tri razgovora (Tre conversazioni). Parole lontane, ma che ben riflettono ancora oggi la complessità della questione. Un sondaggio condotto nel febbraio 2021 dal Levada-Center riporta una realtà ben diversa: solo il 29% degli intervistati ritiene infatti la Russia uno Stato europeo, contro un 64% che invece la pensa al contrario. Eppure la proporzione era quasi ribaltata fino a poco più di un decennio fa.
Come si è giunti a questo punto? Per una serie di motivi, il cui esito è stato il progressivo, inesorabile deterioramento delle relazioni tra Mosca e l’Occidente. Un processo dirompente, le cui conseguenze continuano a plasmare l’oggi, essendo le sue cause profonde tuttora largamente irrisolte. Tra le molte, l’espansione verso Oriente dell’Unione europea e della Nato, fonte di una vera e propria escalation di fraintendimenti e incomprensioni tra le due parti: inclusione per Bruxelles, accerchiamento per Mosca. Quest’ultima infatti, sentitasi stretta all’angolo, ha nel tempo adottato una postura sempre più assertiva in politica estera, mostrandosi determinata a non perdere la tradizionale influenza su quello che considera come il proprio «cortile di casa». La percezione della minaccia russa è così tornata a imporsi ai confini più a est dell’Alleanza atlantica, mettendo in allerta Polonia e Paesi baltici, ma anche i vicini scandinavi.
Il clima è teso, e i rapporti tra l’Occidente atlantico e l’Oriente russo si sono fatti via via più difficili. Il che ha rilanciato la militarizzazione dell’Europa orientale e delle sue relazioni con Mosca, tornata a essere vista principalmente come un avversario da Bruxelles. Con l’effetto paradossale di dare nuovo vigore all’Alleanza, che ha ritrovato il suo vecchio nemico di sempre. La Nato del 2021 è quindi tornata a guardare a est con occhio preoccupato, ma non troppo: la tensione è certamente alta, però non tanto da poter parlare di Guerra fredda. In ogni caso la Russia resta – e con tutta probabilità resterà ancora per il prossimo decennio, conferma il rapporto Nato 2030 – l’avversario militarmente più temibile, sebbene non paragonabile alla minaccia posta all’epoca dall’Unione sovietica. Un chiaro segnale dell’importanza che gli Alleati, e dunque gli Stati Uniti, ancora attribuiscono al fronte europeo.
Cooperazione selettiva
In questa direzione si può leggere il rilancio in grande stile del legame transatlantico, tra le prime mosse della presidenza Biden. Ma non solo: la ridenominazione del comando di Norfolk in «Atlantic Fleet» è un chiaro segnale a Mosca del rinnovato interesse di Washington per la regione; il crescente braccio di ferro nel Baltico con l’Alleanza, tema centrale dell’incontro del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov con il suo omologo finlandese Pekka Haavisto, tenutosi a febbraio 2021; il perdurante congelamento della cooperazione militare Russia-Nato, ferma dal 2014, dopo l’annessione della Crimea; il sempre più radicale allontanamento della Federazione Russa dall’Unione europea, sancito dal palese fallimento della visita di Josep Borrell a Mosca e confermato dalle eloquenti parole di Lavrov, il quale – dalla Cina – ha dichiarato che con Bruxelles «non ci sono più rapporti»; la ferma contrarietà degli Usa al Nord Stream 2 – definito dal segretario di Stato Antony Blinken «a bad idea» – così come all’acquisto e distribuzione in Europa del vaccino russo Sputnik V, senza dimenticare le gravi accuse di Joe Biden nei confronti di Vladimir Putin.
Anche da una prospettiva strettamente geopolitica, la Russia appare sempre più decisa ad affermarsi come perno degli equilibri regionali. Capace di esercitare potere su un’area che va dal Baltico al Mar Rosso, passando per Caucaso meridionale, Medio Oriente e Nord Africa – senza contare l’Europa orientale e l’Artico – Mosca intende costruire la propria credibilità su risultati concreti. Allargandosi in questa vasta porzione di mondo, il Cremlino mostra così tutta la propria volontà di potenza. In ordine sparso: in Siria, dove gioca un ruolo centrale con Turchia e Iran, rispettivamente alleato ribelle e nemico dichiarato degli Usa; in Bielorussia, con il supporto a Lukashenko nonostante gli appelli da Ovest per un regime change; in Ucraina, con l’annessione de facto della Crimea; nel Nagorno-Karabakh, dove in tattica cooperazione con la Turchia – nonostante le divergenze strategiche – si è fatta garante del cessate-il-fuoco, schierandovi propri peacekeeper. Ma è in Libia, e più in generale in Africa, che Mosca si è rivelata un attore capace di muoversi anche lontano dalla propria zona di influenza, puntellando di roccaforti la sua posizione nel Mediterraneo: dal porto di Sebastopoli, in Crimea, alla base navale di Tartus, in Siria, con un futuro approdo anche a Port Sudan, sul Mar Rosso, a dimostrazione del crescente interesse russo verso il continente africano. E poi nel Baltico, snodo strategico per commercio e gas naturale, dove Mosca è più che mai determinata a mantenere una presenza attiva, esercitata anche tramite l’exclave di Kaliningrad. Per questa e altre ragioni il Cremlino guarda con preoccupazione l’avvicinamento di Finlandia e Svezia all’Alleanza atlantica, così come allo stanziamento di bombardieri Usa B1-B Lancer in Norvegia, mossa certamente non gradita al Cremlino. E infine, ma non per importanza, nel Mar Nero, dove l’esercitazione «Sea Shield 21» della Nato ha smosso non poco le acque del «lago russo».
Quale approccio tenere allora con un avversario simile? Dual-track, suggerisce il rapporto Nato 2030. Deterrenza, dunque, ma anche dialogo. In questa rivalità diffusa, invero, sembra esserci ancora spazio per una pragmatica cooperazione su singole questioni di interesse globale. In questo senso, la positiva conclusione delle negoziazioni tra la Casa Bianca e il Cremlino per il rinnovo quinquennale dell’accordo «New Start» il 5 febbraio 2021. Un successo indiscutibile per la comunità internazionale tutta, che prelude a una auspicabile prosecuzione dei contatti in vista di un nuovo trattato. In questa tendenza, tra l’altro, vanno lette anche le possibili aperture verso l’Unione europea su problemi comuni come sicurezza energetica e cambiamento climatico.
Cosa attendersi nel breve periodo?
Le prospettive di un ritorno al business as usual appaiono nel complesso irrealistiche, almeno nel breve periodo. L’accusa di Biden lancia un messaggio difficilmente fraintendibile. Soprattutto agli alleati. Il sillogismo è sottinteso: non si fanno affari con Mosca. La ministeriale dell’Alleanza e il rapporto degli esperti non hanno di certo addolcito i toni. Tutto ciò con l’effetto collaterale di avvicinare la Russia alla Cina. Amicizia di interesse, non affinità elettiva. Ma che a lungo andare potrebbe cambiare natura se i tentativi di normalizzare i rapporti con Mosca non dovessero avere successo. Nel frattempo, Putin si accontenta di stabilire un asse economico-finanziario con Xi Jinping e invia Lavrov a Guilin, nella Cina meridionale, per incontrare la sua controparte cinese proprio mentre a Bruxelles si riuniscono i ministri degli Esteri della Nato. L’obiettivo? «Affrancarsi dal dollaro», sterilizzando parzialmente, in tal modo, le sanzioni americane.
La polarizzazione è evidente, ma ciò non esclude, come si è detto, la possibilità di una cooperazione selettiva su argomenti specifici. Da entrambe le parti, infatti, a ogni accusa seguono, almeno per ora, più o meno velate manifestazioni di disponibilità al confronto, lasciando in tal modo intendere quanto le intenzioni siano meno radicali dell’apparenza. Da questo punto di vista, il foro ideale per la composizione delle controversie presenti e future potrebbe essere il vertice tra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Stati Uniti, Cina, Russia, Francia e Regno Unito). Non vanno però sottovalutate le potenzialità del Consiglio Nato-Russia, malgrado lo stallo ucraino.
Le divergenze saranno dunque verosimilmente ricomposte, ancora una volta, in un contesto multilaterale, dimostrando così la perdurante predilezione per la diplomazia sulle prove di forza, nonostante tutto. Un’occasione che però rischia di risolversi in un nulla di fatto, essendo contestualmente in atto una pericolosa ideologizzazione dello scontro da entrambe le parti. Ancorare il confronto geopolitico a visioni del mondo piuttosto che a interessi comuni, infatti, se da un lato consente agende più ambiziose, dall’altro accentua irreparabilmente le divisioni, trasformando ordinarie rivalità in lotte esistenziali. E ciò non fa ben sperare per la sicurezza internazionale.
di Julian Colamedici
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