Rintracciato dopo un decennio di ricerche, il 2 maggio 2011 il presidente statunitense Barack Obama annuncia con una diretta tv mondiale che il terrorista saudita Osama Bin Laden è infine stato ucciso in un blitz delle forze speciali statunitensi in Pakistan. Si nascondeva nel suo rifugio di Abbottabbad, nei pressi di Islamabad. L’impresa di scovarlo è stata resa possibile grazie a un mix di intelligence e fortuna.
Nell’agosto 2010 Leon Panetta, allora capo della CIA, riferisce a Obama che i sensori dell’agenzia hanno individuato, con buon margine di certezza, un corriere di Bin Laden: si tratta di un uomo di circa trent’anni, di nome Abu Ahmed Al Kuwaiti. È l’inizio della fine per Osama e il punto più alto della prima presidenza Obama. L’operazione, denominata «Neptune Spear», inizia però piuttosto male: a farne parte sono 45 assaltatori dei Navy Seal, suddivisi in 2 elicotteri Black Hawk da assalto e 2 Chinook da trasporto. Il primo Black Hawk atterra malamente sopra il compound di Abbottabad e, anziché posizionarsi sul tetto della palazzina che ospita il leader qaedista, finisce per cadere in un pollaio all’interno del perimetro dell’edificio. I dodici Seal riescono a uscire illesi dal velivolo, che intanto si è adagiato sul terreno inclinandosi di 45 gradi. Si fanno quindi strada verso l’abitazione, facendo saltare con cariche esplosive i cancelli e le porte che gli si parano davanti. Nella casa del custode, il corriere Al Kuwaiti vive con la moglie e i figli. Sente il trambusto e afferra un’arma ma, appena si affaccia all’esterno, è falciato da una raffica di mitra. Stessa sorte all’interno dell’edificio principale tocca al fratello Abrar, a sua moglie e al figlio di Bin Laden, Khalid. All’esterno del perimetro, intanto, è atterrato anche il team del secondo Black Hawk che, con l’aiuto dell’interprete e del cane, tiene a bada i molti curiosi che iniziano ad affluire nel luogo del blitz, allarmati dai rumori e dalle esplosioni. I dodici Seal della prima squadra sono ormai dentro. Secondo la ricostruzione fornita dalla quarta moglie di Bin Laden, Amal, il terrorista in quel momento è in pigiama. La sua famiglia è stata svegliata del rumore causato dall’elicottero che si è schiantato al suolo, scuotendo le fondamenta dell’edificio. «Stanno arrivando gli americani» dice Bin Laden alla moglie, rassegnato al suo destino.
Il terrorista non fa niente per difendersi. Anzi, passa l’AK-47 al figlio Khalid e poi dice: «È me che vogliono, non voi». Ordina pertanto a Khalid di scendere ai piani inferiori e di andare incontro ai Seal. È la sua condanna a morte, viene freddato per le scale. La moglie Amal e il figlio più piccolo Hussein restano invece nella camera da letto insieme a Osama.
Sarà Robert O’Neill, assaltatore del Team Six, a entrare per primo nella stanza del terrorista. Amal s’interpone fra lui e il marito e cerca di aggredire il marine, ma riceve una pallottola in una gamba. O’Neill si trova così di fronte alla figura inconfondibile di Osama Bin Laden. Lo chiama per nome, ma l’uomo non risponde. Senza esitazione, lo abbatte con un colpo al torace seguito da uno nella testa: «Nessuno voleva prigionieri» confermerà in seguito l’uomo.
In tutto, l’operazione dura circa venticinque minuti. Dopo aver raccolto in casa documenti, cd, dvd e computer contenenti informazioni potenzialmente utili nella lotta contro Al Qaeda, i Seal distruggono l’elicottero precipitato nel pollaio e, infilato il cadavere del «nemico pubblico numero uno» in una body bag nera, rientrano alla base di Jalalabad. Intanto, a migliaia di chilometri di distanza, nella «situation room» il presidente Obama e i suoi consiglieri ricevono il seguente messaggio in codice: «Geronimo E.K.I.A.». L’operazione si è conclusa positivamente. Geronimo, infatti, è il nome in codice di Bin Laden, mentre E.K.I.A. è acronimo di «Enemy Killed In Action», il nemico è stato abbattuto durante l’azione. Mission accomplished.
Questa versione, fatta filtrare con abbondanza inconsueta di dettagli operativi, ha suscitato nel tempo alcune perplessità. La durata dell’incursione; l’elicottero che si schianta al suolo, senza feriti; i militari pakistani di stanza nell’Accademia, distante solo un chilometro da Kukal road, che giurano di non aver sentito nulla. Questi e altri dettagli, come il fatto che un super ricercato con una taglia di 25 milioni di dollari sulla testa possa affidare la propria sicurezza soltanto a due corrieri e al figlio, sollevano non pochi dubbi. Bisogna infatti ricordare che il contesto in cui vive e si nasconde Osama in quel momento, è ben diverso da quello di Al Baghdadi. Mentre il primo è scomparso da dieci anni e gode di fama, denaro e un network internazionale di fiducia e connivenze invidiabili in un Paese «amico» come il Pakistan, il secondo opera invece in un contesto di guerra, senza denaro né più coperture, braccato giorno e notte da almeno cinque potenze straniere.
Le fonti del Pentagono, a ogni modo, se da un lato non hanno mai ammesso esplicitamente perdite ad Abbottabad, hanno però richiamato l’attenzione su un altro «incidente» che ha coinvolto i Navy Seal del Team Six, poche settimane dopo. Nella notte del 6 agosto, a sessanta miglia dalla capitale afghana Kabul, nel distretto di Wardak Sayad Abad un elicottero Chinook viene lanciato all’assalto di una casa piena di combattenti talebani armati. L’elicottero è abbattuto da un talebano con un lanciagranate RPG. Nell’episodio perdono la vita trenta militari americani, sette soldati afghani e un interprete. Uno degli americani muore con il cane che il team portava con sé; degli altri, sette erano piloti e membri dell’equipaggio, mentre ventidue erano Navy Seal, sedici dei quali appartenenti al Team Six, proprio lo stesso dell’attacco a Bin Laden.
Questa circostanza, almeno stando alla versione ufficiale, non regge: prima fra tutte, l’uso di un elicottero troppo lento e vulnerabile per quel tipo di missioni di attacco. Nel blitz di Abbottabad, i Seal hanno usato i Black Hawk, più veloci e silenziosi dei Chinook, non a caso utilizzati come supporto e rifornimento, e per questo tenuti fuori dal perimetro operativo. Mentre il Chinook abbattuto il 6 agosto seguente era letteralmente «pieno» di commandos, in evidente violazione delle norme di sicurezza in uso presso tutte le Forze Speciali, che prevedono di suddividere queste preziose risorse umane e professionali su più mezzi di trasporto, proprio per evitare di perderne una quantità relativamente altissima in un unico incidente. Ad Abbotabad i Seal erano infatti opportunamente divisi: dodici su un Black Hawk e dieci sull’altro. Ma, al di là di queste informazioni, il dato è uno soltanto. Nel maggio del 2011 non appena un seme del male è stato estirpato dal terreno, subito ne è spuntato un altro. Il suo nome è Abu Bakr Al Baghdadi.
Tratto dal libro
I semi del male
di Stefano Piazza e Luciano Tirinnanzi
Stefano Piazza
Giornalista, attivo nel settore della sicurezza, collaboratore di Panorama e Libero Quotidiano. Autore di numerosi saggi. Esperto di Medio Oriente e terrorismo. Cura il blog personale Confessioni elvetiche.
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