Niente governo, tutti rimandati a settembre. Almeno per il momento, la prospettiva che la Spagna in autunno torni alle urne sembra sempre più probabile. E sarebbe la quarta volta in quattro anni. Uno scenario che quasi tutte le forze politiche dicono di voler scongiurare ma contro il quale nessuna di queste ha fatto praticamente molti sforzi.
È il vicolo cieco nel quale il paese è finito dopo le elezioni di fine aprile, una tornata che aveva incoronato vincitore il PSOE di Pedro Sánchez, senza tuttavia avere la maggioranza dei seggi del Parlamento de Las Cortes. Un risultato scaturito dal marasma politico che comprende la fine del bipolarismo, la destra tradizionale che si accompagna al nuovo franquismo di Vox, la questione catalana, la frammentazione di una sinistra astiosa. Proprio le diatribe tra il PSOE e Unidas Podemos – e tra i suoi leader Sánchez e Pablo Iglesias – hanno infatti scandito la settimana appena passata, diatribe che per ora hanno mandato all’aria la possibilità di dare un governo alla Spagna.
Lunedì 22 luglio, in un lungo discorso a Las Cortes, Pedro Sánchez si indirizzava ai parlamentari profilando una riforma scolastica con obbligo fino a 18 anni, la salvaguardia del sistema pensionistico, un nuovo statuto dei lavoratori. Il premier incaricato chiudeva con un appello: «Ciò che ci unisce è la promessa della sinsitra: un progresso ecologicamente sostenibile e la giusta distribuzione di quel progresso. O se lo preferite, detto in un altro modo: una società di uomini e donne liberi e uguali in armonia con la natura».
Palese il riferimento a Podemos e a Pedro Iglesias, che qualche giorno prima avevano finalmente aperto a un accordo con il PSOE. Iglesias aveva infatti accettato di non far parte del governo pur pretendendo la partecipazione di ministri di Unidas Podemos, la coalizione di sinistra tra Izquierda Unida e Podemos che alle elezioni si era conquistata 42 seggi. La risposta di Sánchez: sì a profili tecnici, no a membri della direzione politica.
Martedì 23 luglio il primo voto di fiducia. Quasi un passaggio a vuoto visto che tale voto pretendeva una maggioranza assoluta di 176 seggi. Maggioranza che, come ci si aspettava, non è arrivata. I negoziati si sono concentrati dunque sul secondo voto di fiducia che avrebbe richiesto una maggioranza semplice e non assoluta. E, soprattutto, si sono focalizzati sui ministeri delle Politiche economiche e sociali, al centro delle trattative tra PSOE e UP. I socialisti hanno proposto la vicepresidenza degli Affari Sociali e i ministeri di Casa ed Economia Sociale, Sanità e Uguaglianza; Podemos ha rilanciato chiedendo il dicastero del Lavoro, richiesta negata dal PSOE. Una strategia che ha creato qualche tensione anche all’interno della coalizione di UP, con i sei deputati di Izquierda Unida che hanno minacciato di smarcarsi dall’alleato. Alla vigilia del secondo voto di fiducia, le probabilità di un accordo sembravano già remote.
Giovedì 25 luglio, infatti, Pedro Sánchez ha ottenuto la fiducia di soli 124 deputati. I contrari sono stati 155, gli astenuti 67, tra cui gli altri partiti di sinistra in Parlamento. Un risultato che ha lasciato il fine settimana alle schermaglie tra le parti e a speculazioni sugli scenari futuri: ci sono più o meno due mesi prima che il Re, in mancanza di un accordo, sciolga Las Cortes e proclami nuove elezioni. Azzoppata, dunque, la probabilità di vedere il primo governo di coalizione in Spagna. Lo ha confermato (anche per il futuro) Carmen Calvo, vicepresidente del governo in carica, mentre il leader di Unidas Podemos, Alberto Garzon, ha aperto alla possibilità di un appoggio esterno a Sánchez sulla base di un patto programmatico.
L’analista Fernando Vallespin ha intanto paventato la possibilità che Sánchez possa governare con l’astensione della destra: una probabilità bocciata da fonti interne al Partido Popular (PP), il quale in termini elettorali spera in un ritorno a casa degli elettori di Ciudadanos (la nuova destra di Albert Rivera) e di Vox. Eppure, se anche gli ultimi sondaggi di El Pais (di inizio luglio) avevano fatto notare una crescita di due punti del PP e di tre del PSOE, i rapporti di forza restano invariati e non sembra che un ritorno alle urne possa agilmente sbrogliare la matassa.
Il 23 settembre è il termine ultimo per trovare un accordo. Altrimenti, il Re Felipe VI scioglierà Las Cortes e convocherà elezioni per il 10 di novembre. Con la campagna elettorale che potrà incendiarsi sulla sentenza – attesa in autunno – ai 12 indipendentisti catalani arrestati dopo le manifestazioni del 2017 e la sinistra che si troverà ancora una volta tra l’incudine del secessionismo corteggiato da Podemos e il martello del sentimento unitario del PSOE. Nel frattempo, continueranno i contatti e le contrattazioni, anche se – come scrive in un editoriale per El Pais Andrea Rizzi – i partiti spagnoli non sembrano portati al compromesso. Non come in Germania, Svezia, Danimarca, Italia o Portogallo. Dove si sono trovate soluzioni alternative, a volte contronatura, pur di governare. In questo senso, la Spagna è un’eccezione in Europa.
Photo: Spain’s caretaker Prime Minister Pedro Sánchez arrives at the Spanish parliament in Madrid, Spain, Tuesday, July 23, 2019. Spain’s caretaker prime minister is facing the first of two opportunities to win the endorsement of the national Parliament needed to form a government. (AP Photo/Manu Fernandez)
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