Il Mossad ha spostato il suo quartier generale allo Sheba Hospital di Tel Aviv. Senza licenza di uccidere ma con un budget illimitato, i suoi agenti in giro per il mondo hanno l’ordine di comprare ventilatori e mascherine. Per trovare soluzioni tecnologiche nella battaglia al virus, Zahal, le forze armate israeliane, ha anche mobilitato l’Unità Shmone Matai (8.200). E’ il reparto nel quale i giovani geni del paese trascorrono i tre anni di servizio militare obbligatorio, inventando cose: sistemi d’arma, virus e antivirus di computer, sedili ergonomici per gli elicotteristi, aria condizionata per i carri Merkava. Ora si combatte contro un nemico mondiale.
Dal Nord della Siria non si segnalano combattimenti fra turchi e reparti fedeli a Bashar Assad. Nel Nord-Est controllato dai curdi, le Forze di protezione popolare si sono mobilitate contro le milizie iraniane: ora la loro preoccupazione non è nella forza militare del nemico ma nel pericolo di contagio di soldati venuti da uno dei paesi più aggrediti dal virus.
Gli americani avevano ignorato l’invito del governo iracheno ad abbandonare il paese. Ora però il Pentagono ha deciso di ridurre la presenza di militari e chiudere alcune basi per evitare contagi. Come in Afghanistan, dove 21 soldati hanno il virus: stop all’invio di nuove truppe. Quasi non si combatte più nello Yemen né in Libia, dove i sodati vanno a pattugliare il fronte con la mascherina, evidentemente convinti che il virus sia più pericoloso di una bomba di mortaio. A Gaza con solo 12 contagiati e nessun morto (Organizzazione mondiale della sanità, 1 aprile), Hamas sta rivalutando le qualità di essere chiusi da anni in una gabbia.
Pima che Antònio Guterres, il segretario generale Onu, proponesse il congelamento dei conflitti per la durata della pandemia, con spirito olimpico d’antica Grecia le guerre, le guerriglie, gli scontri etnici e religiosi, si erano già fermati da soli. Al momento, il Covid-19 è il candidato numero uno al Nobel per la pace di quest’anno, che si attribuirà come sempre in autunno.
I più ottimisti potrebbero pensare che questa sia la prova che quando saremo guariti dalla pandemia, il mondo sarà diverso. E’ probabile, ma sarà anche migliore? Il Grupo Modelo messicano ha ritirato dal mercato il suo prodotto di maggior successo, la birra Corona. Quando i pub potranno riaprire, la ritroveremo con un nome e un’etichetta diversi. Ma la bevanda sarà la stessa di prima.
Uso la parabola della birra per dubitare che fra sei mesi o un anno ci troveremo in un mondo molto cambiato, addirittura migliore. Ammetterete che la II Guerra mondiale – il più spaventoso conflitto della storia umana, concluso con la scoperta dell’Olocausto e l’esplosione delle prime due bombe atomiche – sia stato peggio di quello che alla fine sarà il coronavirus. Eppure nel 1947, due anni più tardi, è iniziata la corsa al riarmo nucleare. E l’antisemitismo non è mai morto.
Se il comitato norvegese attribuirà il Nobel per la pace al Covid-19 (evidentemente la mia è una provocazione) è solo perché tutti coloro che lo avrebbero meritato, erano chiusi in casa per il lockdown. O sono stati ignorati da un mondo preoccupato solo dal virus, mentre loro – i meritevoli – continuavano a occuparsi di profughi, di migranti; di poveri che, se noi diventeremo più poveri per colpa della pandemia, loro diventeranno ancora più affamati; di mutamenti climatici e riarmo nucleare.
Se dunque il coronavirus conquisterà il Nobel è solo perché ha agito come i padroni delle ferriere del XIX secolo: sarà stato il brutale monopolista di tutte le nostre paure.
PHOTO: AP
Pubblicato sul blog di Ugo Tramballi se Il Sole 24 Ore
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