Oltre centomila caschi blu e otto miliardi di euro investiti in media ogni anno per le missioni di pace non stanno bastando alle Nazioni Unite per porre un freno a guerre e violenze in Africa. Invertire la tendenza è uno dei principali compiti di cui si sta facendo carico il nuovo segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, nominato il primo gennaio del 2017.
Sulla carta, a Guteress non manca il background di competenze ed esperienze per affrontare in modo incisivo la questione africana. A capo dell’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, tra il 2005 e il 2015, l’ex primo ministro portoghese conosce bene le crisi che stanno mettendo a ferro e fuoco il continente africano. Sin dal primo giorno della sua nomina a lui viene chiesto di segnare il passo rispetto al mandato poco risolutivo del suo predecessore Ban Ki-Moon e di fare in modo che decine di Paesi non finiscano nell’indice dei Failed States (“Stati Falliti”), risucchiati da conflitti interetnici e interreligiosi, terrorismo jihadista o lotte fratricide per il potere.
Attualmente le missioni ONU di peacekeeping in Africa sono 8: UNMISS (United Nations Mission in South Sudan) in Sud Sudan; UNISFA (United Nations Interim Security Force for Abyei) nel distretto di Abyei tra gli stati di Kordofan meridionale (Sudan) e di Bahr al-Ghazal settentrionale (Sud Sudan); UNAMID (UNAMID, African Union/United Nations Hybrid operation in Darfur) nel Darfur nella parte meridionale del Sudan; MINUSCA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic) in Repubblica Centrafricana; MONUSCO (United Nations Organization Stabilization Mission in the Democratic Republic of the Congo) in Repubblica Democratica del Congo; MINURSO (United Nations Mission for the Referendum in Western Sahara) nel Sahara Occidentale; MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali) in Mali; UNMIL (United Nations Mission in Liberia) in Liberia.
Le missioni ONU di peacekeeping in Africa sono 8: in Sud Sudan, ad Abyei tra Sudan e Sud Sudan, nel Darfur nella parte meridionale del Sudan, in Repubblica Centrafricana, in Repubblica Democratica del Congo, nel Sahara Occidentale, in Mali e Liberia
A pesare in negativo su queste missioni sono una serie di fattori riscontrati da inchieste condotte sia internamente dalle Nazioni Unite che da organizzazioni esterne. Il primo tra questi fattori è la mancanza di disciplina nelle truppe. Emblematico è il caso dei caschi blu francesi operativi in Repubblica Centrafricana, riconosciuti colpevoli tra il 2013 e il 2015 di aver compiuto atti di violenza sessuale nei confronti di donne e minori offrendo loro in cambio cibo e vestiario.
Il problema è che a episodi del genere, frequenti praticamente in ogni Paese in cui le Nazioni Unite abbiano messo piede in Africa, in quasi tutti i casi non seguono punizioni adeguate. Il giudizio sulla condotta dei soldati impegnati in missioni di pace ONU spetta infatti al Paese a cui appartengono. In molti casi capita che gli Stati coinvolti evitino di condurre in maniera decisa inchieste di questo genere per evitare di subire dei ritorni di immagine negativi.
Le soluzioni per venire a capo di questo cortocircuito di interessi esistono, almeno a parole. Secondo Gustavo de Carvalho, ricercatore dell’ISS Africa (Institute for Security Studies), per conquistare la fiducia delle popolazioni delle aree in cui intervengono le missioni di pace dell’ONU dovrebbero anzitutto imporre a ogni Stato membro il rispetto di standard di trasparenza nella selezione delle unità da inviare in missione, attraverso una serie d ispezioni che consentano di verificarne l’idoneità al compito assegnato. In secondo luogo, l’ONU deve mostrare maggiore fermezza nei confronti di quei governi che non favoriscono o addirittura ostacolano lo sviluppo di processi politici democratici. Se le Nazioni Unite si mostrano deboli in tal senso, è inevitabile che crisi politiche sfocino in conflitti tra fazioni opposte.
È fondamentale, inoltre, che soprattutto nelle aree più critiche l’ONU demandi il compito di gestire le crisi alle forze regionali limitandosi a sostenere finanziariamente e logisticamente le missioni e a monitorarle costantemente. Si tratta di un passaggio di consegne che nasconde molte criticità. Emblematico è il caso della Somalia, dove la missione dell’Unione Africana AMISOM (African Union Mission to Somalia) si sta dimostrando incapace di fermare l’ondata di attentati dei qaedisti di Al Shabaab. L’ultimo, avvenuto il 14 ottobre a Mogadiscio, ha causato almeno 215 morti e oltre 350 feriti. In queste condizioni, affidare il futuro dell’Africa ai Paesi africani è di fatto una soluzione impraticabile.
Rocco Bellantone
Caporedattore di Babilon, giornalista professionista, classe 1983. Collabora con le riviste Nigrizia e La Nuova Ecologia di Legambiente. Si occupa di Africa, immigrazione e ambiente.
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