Il sostantivo «cremlinologo» aveva certo molti anni fa una sua funzione, di là dal definire l’etichetta di uno specialismo. Non è detto che i cremlinologi democratici negli Stati Uniti ne capissero meno di quelli repubblicani, ma certo in Europa ultimamente si è un po’ sottovalutata la cosa. In una parola: il peso del passato.
Questa premessa serve per decifrare il discorso di lunghezza degna di un plenum russo tenuto dal primo ministro ungherese Viktor Orban nella località transilvana di Tusvanyos il 27 luglio. Nel suo parlare, che ha concluso il consueto meeting annuale della comunità di lingua ungherese nel nord-ovest della Romania, Orban si è arrischiato a suddividere il processo argomentativo in tre grandi blocchi, l’ultimo dei quali articolato in dieci punti. Sarebbe inutile elencare punto per punto le sue tesi. Quel che importa è, semmai, la loro analisi.
Quel che sicuramente stride con le dichiarazioni mediatiche che si trovano sulla stampa, su internet e nella tv del nostro Paese, è la decisa, insistita mancanza di spiegazioni vagamente ragionate in tema di politica estera. Oltre che la comprensione di Orban non solo come conservatore ma come prodotto storico. Dunque non solo l’Est ma il Patto del Trianon del 1920 che spezzò l’Ungheria tra Slovacchia Romania e Croazia. Oltre alla parentesi del 1940 che riportò la Transilvania, le sue comunità di lingua ungherese e le miniere d’oro, dentro l’Ungheria. Serve tenere a mente questo mentre ci si immerge in un ambiente dove chi arriva da Budapest per sentire il discorso discute animatamente di come la Germania (ieri, non nel 1940) abbia caricato sui treni merce la fertile terra nera ucraina mentre gli inglesi impongono la loro lingua come «ufficiale» in Ucraina.
A Tusvanyos Orban ha detto che la vittoria ipotetica di Trump sarà l’ultimo tentativo americano di bloccare l’ascesa del continente asiatico
Nel discorso di Orban la politica estera era affrontata prima di quella interna e – fatto aggio alla traduzione degli interpreti in cuffia – le dichiarazioni di politica interna risultavano abbastanza ostiche da comprendere, erano addirittura ermetiche non fosse stato per l’accenno verso la fine del discorso a quella «generazione di liberali» – come l’ha definita, e non «opposizione» come invece si diverte a chiamarla la stampa europea della classe dirigente allineata coi democratici americani – generazione che resisterà anche in futuro. Orban dà quindi per inteso che il processo dialettico è dentro la società ungherese. Diversamente da quel che è passato nei nostri media, semplicemente lamenta che il nuovo partito «liberale» sia corrotto alchemicamente dalle alleanze dei macro-partiti di Bruxelles. La critica è quindi al metodo, non al merito e al contenuto effettivo di questo partito nuovo.
Per quanto riguarda la politica estera, Orban ha dato dei numeri. Ha detto che la vittoria ipotetica di Trump sarà l’ultimo tentativo americano di bloccare l’ascesa del continente asiatico. L’opposizione all’Asia potrà essere allungata effettivamente per dodici anni ipotizzando, dice Orban, che a Trump subentri in seguito il vice presidente Vance. Quel che colpiva l’ascoltatore italiano era senz’altro l’affermazione di Orban per cui altri attentati a Trump avranno luogo.
In confronto sembrava più politicamente scorretta la sua affermazione per cui l’asse Parigi-Berlino è stato destituito di efficacia e rimpiazzato da quello Londra-Varsavia-Kiew. Perché? Perché il processo delineato da Orban è nella natura delle cose da quando la Polonia «ha aumentato le spese militari oltre il 2%» come si legge ormai anche sul più scipito dei nostri giornali e – soprattutto – da quando Kiev si è rivelata un peso insostenibile, ha rilevato Orban, per Bruxelles.
Orban sostiene che l’Ue non sarà in grado di inserire Kiev né nell’Unione né nella NATO. Né tantomeno di accompagnarla verso la piena normalizzazione del processo sociale fatto di ripopolamento e non solo di ricostruzione, come invece si evince dai piani elaborati a tavolino. Anche perché «Americans will desert Europe», cioè gli americani abbandoneranno il Vecchio continente a prescindere dai metodi con cui lo faranno e da chi andrà al potere, siano essi i democratici o i repubblicani.
Per Orban «Americans will desert Europe»: gli americani abbandoneranno il Vecchio continente, a prescindere dai metodi con cui lo faranno e da chi andrà al potere
Il discorso di Tusvanyos si è rivelato dunque pieno di spunti e riflessioni, e spiace constatarlo, un lontano ricordo della politica aggregativa, genuina, forse ancora ideologizzata, che ha fatto la storia italiana almeno fino alla cosiddetta Seconda Repubblica. Ed è una nota amara quella data da Orban per cui «ai francesi piace la Rivoluzione mentre per gli italiani si può fare a meno dello Stato». Certo gli ungheresi hanno un’eredità di blocco sovietico per cui lo Stato non si tocca, ma almeno le conferenze estive sono fatte di idee e non solo di parole. Del resto «ogni popolo», tuonava Hegel, «ha la storia che si merita». Mentre ad altri politici piace «tubare» come le colombe di evangelica memoria.
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