Italia
Europa
Il Regno d’Italia, nato nel 1861 sotto la casa regnante Savoia, diviene Repubblica nel 1946, dopo il ventennio fascista a partito unico (PNF) di Benito Mussolini. L’attuale Costituzione entra in vigore il 1° gennaio 1948. Dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni di Tangentopoli (1992-1993), che hanno visto il brusco tramonto della Prima Repubblica, il sistema politico-parlamentare italiano si è basato su un sistema elettorale di tipo proporzionale, che garantiva la rappresentanza di tutte le sfumature del panorama politico-ideologico nazionale, e su un sistema consociativista che ha visto i tre maggiori partiti - Democrazia Cristiana, Partito Comunista e Partito Socialista - tenere insieme le redini del potere economico e amministrativo del Paese. Nel 1994, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi con il suo partito Forza Italia, il sistema di rappresentanza si è trasformato da proporzionale puro a bipolare, con la costituzione di due schieramenti - moderati e progressisti - che negli ultimi 18 anni si sono alternati al governo. In questo periodo anche la Costituzione “materiale” ha subito cambiamenti profondi, discostandosi dalla Costituzione “formale”, con un’accentuazione di tipo semipresidenzialista dei poteri del Quirinale e con un importante mutamento nei rapporti tra elettori e Parlamento. Se, infatti, la Costituzione prevede che sia il Presidente della Repubblica a scegliere, dopo le elezioni, il Presidente del Consiglio, nelle ultime tornate elettorali il premier è stato scelto dagli elettori sulla base delle indicazioni dei due maggiori schieramenti contrapposti che sono giunti a indicare, senza alcun avallo formale, il nome del candidato premier sulla scheda elettorale. Oggi il panorama politico in Italia resta incerto: prima, la crisi del governo Berlusconi del novembre 2011, che ha portato alla nomina di Mario Monti a capo di un governo tecnico (cui si è giunti con qualche accentuazione extra-costituzionale dei poteri e delle prerogative del Presidente della Repubblica). Poi, lo scioglimento delle Camere in seguito alle dimissioni del governo Monti il 21 dicembre 2012. Quindi, le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013, che hanno messo in luce una crisi istituzionale che ha preoccupato l'Eurozona, dato che dai risultati elettorali era emerso un quadro di ingovernabilità. L’Italia uscita dalle urne ha visto il successo inaspettato del movimento di protesta “5 Stelle” guidato da Beppe Grillo, che con quei numeri era il primo partito, mentre il Partito Democratico (PD), pur conquistando la maggioranza dei seggi alla Camera, non dispone al Senato - grazie al discreto successo del Popolo della Libertà (PDL), che è riuscito in parte a contenere le perdite - dei numeri sufficienti per governare da solo. Il 20 aprile 2013, il Parlamento italiano ha eletto il nuovo Presidente della Repubblica, ancora Giorgio Napolitano: per la prima volta nella storia repubblicana dell'Italia, è stato conferito un secondo mandato al Presidente uscente. Napolitano ha quindi nominato presidente del Consiglio il democratico Enrico Letta, che ha guidato una coalizione trasversale formata da Partito Democratico (PD), Popolo della Libertà (PDL) e Scelta Civica (la lista del premier uscente Mario Monti). Il nuovo governo ha ottenuto la fiducia il 29 aprile 2013, ma il 14 febbraio 2014, dopo meno di un anno, Enrico Letta si è dimesso. Al suo posto, è stato nominato Matteo Renzi, segretario del PD e più giovane premier della storia d'Italia. Il suo è il sessantesimo governo della Repubblica ed è composto per la prima volta dalla metà di ministri donne. Della coalizione governativa fanno parte anche in questo caso: PD, Nuovo Centro Destra e Scelta Civica. Il governo Renzi ha giurato il 22 febbraio 2014. Dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano, il 31 gennaio del 2015 Sergio Mattarella è stato eletto al quarto scrutinio presidente della Repubblica con 665 voti, poco meno dei due terzi dell’assemblea elettiva. Settantaquattro anni, giudice della Corte costituzionale dal 2011, Mattarella ha prestato giuramento il 3 febbraio, dopo le dimissioni di Napolitano, a causa dell’età. Anche il governo Renzi ha avuto vita breve: l’ex sindaco di Firenze, infatti, ha proposto un referendum nazionale per un imponente emendamento costituzionale, personalizzando la campagna referendaria e promettendo le dimissioni in caso di vittoria del “No”. La popolazione si è schierata contro la proposta del presidente del consiglio e il 7 dicembre 2016, come annunciato, sono arrivate le dimissioni. Dopo poco meno di una settimana le consultazioni hanno portato alla formazione del governo Gentiloni, che si è protratto fino a marzo 2018. di fatti, le elezioni politiche del 4 marzo hanno indicato il M5S come primo partito d’Italia, mentre la coalizione di centro-destra come raggruppamento politico con più voti. La coalizione, non potendo governare senza l’avvallo dei 5 Stelle, non ha potuto formare un governo. Per questo motivo, un improbabile accordo tra le fila di Salvini e di Di Maio ha dato vita al cosiddetto governo giallo-verde, con presidente del consiglio Giuseppe Conte, ex avvocato e giurista non candidato alle elezioni. Il clima di tensione all’interno della maggioranza però è cresciuto sensibilmente, soprattutto a causa delle europee del 2019, che hanno visto mutare i rapporti di forza in favore della Lega Nord. Il clima insostenibile ha portato alle dimissioni del primo governo Conte, che è poi stato incaricato di formare un’altra maggioranza. Richiesta che si è concretizzata con l’accordo tra Movimento 5 Stelle e PD, oltre ad altri partiti di sinistra, che sono andati a formare il governo giallorosso, che ha sostituito la sfumatura verde tra le fila della maggioranza. Con lo scoppio della pandemia di Covid e la necessità di gestire gli ingenti fondi provenienti dall’UE e dal cosiddetto Recovery Fund, che ha messo a disposizione dell’Italia 209 miliardi, molti dei quali a fondo perduto, si sono esplicitate molte differenze di vedute tra i ministri del nuovo governo. Italia Viva, l’appena nato partito dell’ex premier Matteo Renzi, ha a più riprese definito inaccettabile l’iniziale piano di Conte e si è perciò arrivati alle dimissioni delle due ministre Bonetti e Bellanova, provenienti dal suo partito. La maggioranza parlamentare è perciò venuta meno per l’ennesima volta e per l’impossibilità di Conte di trovarne un’altra, si è dovuto cercare una nuova figura che mettesse d’accordo i partiti; molti dei quali invocavano la necessità di un governo di unità nazionale, per gestire quello che era un vero e proprio snodo epocale. Mattarella ha dunque convocato Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, figura vicina alle istituzioni comunitarie, che sebbene non avesse un solito passato in politica, conosceva bene i meccanismi economico-finanziari per trainare il paese verso la rinascita post pandemica. Il 13 febbraio il nuovo esecutivo tecnico-politico ha prestato ufficialmente giuramento, entrando in carica. Anche per quanto riguarda la politica estera italiana, il nascente governo Draghi si trova oggi a dover fronteggiare problematiche che segneranno punti di svolta per lo stivale. Come ribadito nel discorso di insediamento alle camere, il premier mette al centro del suo progetto politico un forte sentimento atlantista e un rinnovato desiderio di un’Europa forte e più coesa. Quest’ultimo aspetto passa in prima istanza per quello che in questi ultimi anni sta rappresentando un vero punto critico per i paesi meridionali, ovvero il tema migranti. L’Italia spinge a gran voce per modificare il trattato di Dublino, che inchioda i paesi di primo ingresso, quindi soprattutto Italia, Grecia, Cipro e Spagna a dover sostenere l’onere di primo soccorso, identificazione, assistenza e inserimento nella società dei migranti che sbarcano nelle coste dei paesi membri. La necessità è senza dubbio quella di trovare un sistema di condivisione ed equa ripartizione, come anche quella di fare accordi per i rimpatri con i paesi di partenza. In questo senso, un altro dossier caldo è rappresentato proprio dai rapporti bilaterali con il nascente governo libico, che cerca di lasciarsi alle spalle un decennio segnato dalla guerra civile. L’ultimo tentativo in tal merito è stato il memorandum italo-libico firmato dal ministro Minniti nel 2018, con cui l’Italia elargiva finanziamenti alla guardia costiera libica, per un controllo delle partenze. La questione migranti si interseca anche con il dialogo con la Turchia, paese di transito di centinaia di migliaia di sfollati siriani. Al centro della questione anche il tema diritti umani, diretta conseguenza del tema migrazione e non solo, che interessa anche i rapporti con la Russia e la Cina, due partner fondamentali per l’Italia e per l’Europa. Draghi cercherà di mediare tra le questioni riguardanti le libertà fondamentali, prerogativa dei paesi democratico-liberali, e la necessità di portare avanti obiettivi strategici di lungo periodo. All’interno dell’Unione invece, come preventivabile, si riafferma l’irreversibilità dell’Eurozona, messa sotto accusa in questi anni da diversi partiti mediaticamente definiti populisti.
Un report economico sulla situazione dell’Italia nel 2021 non può prescindere dal cominciare con l’analisi di ciò che ha rappresentato il Covid-19 per il nostro paese. Il 2020 è stato metaforicamente colpito da una meteora sanitaria, che ha significato vittime fisiche e vittime sistemiche. Nel 2019, anno precedente la meteora, la situazione dei parametri economici italiani presentava qualche segno positivo e altrettanti negativi, ma comunque non così critica, considerando una dilagante crisi economica che per anni aveva avuto conseguenze disastrose, unita ad una onnipresente instabilità politica. I primi semestri registravano un rallentamento nella crescita del PIL, che è arrivata a toccare anche lo 0,2%, a fronte di una media europea dell’1,2% per quell’anno. Ma nonostante le tensioni protezionistiche, dominate dalla guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti, la domanda estera era in leggero aumento rispetto al 2018. Malgrado ciò, anche a causa della diminuzione del commercio mondiale, la produttività industriale italiana ne ha risentito, trainata dal calo del settore automobilistico. E sebbene, come detto, la domanda estera era lentamente in aumento, la crescita delle esportazioni era invece passata dal 3,6% del 2018, al 2,3% del 2019. Il dato va a legarsi però ad una diminuzione percentuale dell’import, ovvero non una minore crescita, ma un dato inferiore a quello del precedente anno dello 0,7%, che ha significato un avanzo commerciale del 3,1% (differenza tra beni esportati ed importati), maggiore rispetto al 2018. La disoccupazione mostrava segni positivi, assestandosi intorno al 10%, grazie a 145.000 nuove assunzioni. Il deficit pubblico era in netto calo, ovvero la differenza tra quello che lo stato incassa e quello che spende, passando dal 2,2 all’1,6%. Mentre il debito pubblico rimaneva al valore di 134,8%, molto superiore alla media europea. Questo era il quadro italiano all’indomani della pandemia, che inutile ricordare, è stato interamente stravolto dall’incubo Covid. Il PIL è calato dell’8,9% nel 2020, i consumi delle famiglie residenti del 10,7%, le esportazioni di beni e servizi del 13,8% e l’occupazione del 10,3%. Questi sono i dati più che allarmanti, che hanno segnato una delle più gravi recessioni delle società moderne. Tutto questo si è andato a sommare ad un aumento del divario di crescita tra gli Stati Uniti e l’Europa, in un momento in cui l’asse franco-tedesco stava cercando di colmare il gap con l’alleato atlantico, ma anche l’Italia con il CORE europeo, Berlino in primis. Questo perché vi è stato, a causa della pandemia, un impatto asimmetrico del virus sui diversi paesi europei. Il Covid, come presumibile, ha inciso soprattutto sugli stati il cui traino era rappresentato dal settore dei servizi, ed in particolare dal turismo, dall’arte e dall’intrattenimento. L’economia del Bel Paese, inutile dirlo, era una calamita di turisti per la diversificazione paesaggistica e per la ricchezza artistico-culturale del territorio. In Italia, infatti, il turismo produce il 7% del PIL, ma tenendo conto dei settori principali con cui risulta profondamente legato, ovvero quello alimentare, energetico, metallurgico e di stampa, si arriva al 13% per quanto riguarda il PIL e il 14% per quanto riguarda l’occupazione. Una nota positiva però è doverosamente da riportare, trattando questo settore fortemente colpito: la pandemia ha trasformato profondamente la narrativa di questo business, che ha bruscamente virato verso il turismo sostenibile, con un occhio di riguardo alla domanda interna. Le parole d’ordine sono innovazione digitale, accortezza sanitaria, impatto ambientale e cura del territorio. E d’altronde, la diversificazione dell’impatto covid sull’economia mondiale, significherà altresì una differenziazione nella ripresa. Chi sarà riuscito a digitalizzare più comparti economici possibili, permettendo la non interruzione degli stessi, si rialzerà più in fretta, con meno cerotti. Relativamente al settore dell’industria, in Italia possiamo osservare una situazione meno critica del previsto. La ripartenza della domanda era già cominciata negli ultimi trimestri del 2020, assestando la produttività del settore ad un -2,6% rispetto all’anno precedente, con tutte le dovute differenziazioni in base ai settori industriali, colpiti più o meno duramente. Il livello occupazionale del paese ha risentito meno intensamente rispetto all’immaginario collettivo, segnando un calo degli occupati del 2,8%. Dato però da interpretare con attenzione, perché nonostante le persone ad aver perso il lavoro siano state 170mila, il vero crollo lo si ha avuto nelle ore lavorate pro capite, grazie a forme di riduzione degli orari e al blocco dei licenziamenti. Le misure possono aver temporaneamente mitigato le ripercussioni del virus, che però potrebbero riacutizzarsi in seguito, quando smetteranno di produrre effetti. Da tenere in considerazione anche l’aumento degli inattivi, che pari quasi a mezzo milione, ha sicuramente influito sul dato finale, riducendo il totale della forza lavoro attiva. Ritornando invece al drastico calo percentuale del consumo delle famiglie italiane, si osserva anche un notevole aumento del risparmio privato, anche se forzato, pari circa a 26 miliardi. Questo dato può verosimilmente fare da elemento di traino per l’economia nel prossimo futuro, quando le incertezze occupazionali saranno sciolte e il risparmio si tradurrà in consumo, o in investimento. Il deficit pubblico invece, che era balzato al 9,5% nel 2020, si è momentaneamente abbassato al 7,8% ed è auspicato assestarsi intorno al 4,8% nel 2022. In questo teatro dell’assurdo però, abbiamo potuto osservare il più grande intervento strutturale ad opera dell’Unione Europea mai messo in campo. Il Recovery Fund è il fondo con cui l’Europa aiuterà i Paesi Membri ad uscire dal pantano Covid. Si tratta di prestiti, alcuni dei quali a fondo perduto, per svariati miliardi. L’Italia, ovvero uno dei paesi maggiormente colpiti, e perciò tra i più copiosamente aiutati, dovrebbe ricevere in totale 209 miliardi di euro. L’erogazione e le possibilità di spesa dipendono dal soddisfacimento di determinati standard inclusivi e sostenibili, come indicato dal cosiddetto piano Next Generation EU. Una stima dell’impatto degli aiuti europei sulla crescita degli stati facenti parte, ci aiuta a capire l’enorme portata di questa politica senza precedenti. Le risorse in questione comprenderebbero quantitativamente 14,4 miliardi per il 2021 e ben 20 miliardi per il 2022, che vanno ad aggiungersi alle risorse della legge di bilancio. Le stime predicono una crescita senza fondi europei di un valore compreso tra 0,7 e 0,6% per il biennio 2021-2022, che diventerebbe addirittura di poco più del 4%, se venissero invece elargiti, mediante l’accettazione delle prospettive di investimento italiane.
Un report economico sulla situazione dell’Italia nel 2021 non può prescindere dal cominciare con l’analisi di ciò che ha rappresentato il Covid-19 per il nostro paese. Il 2020 è stato metaforicamente colpito da una meteora sanitaria, che ha significato vittime fisiche e vittime sistemiche. Nel 2019, anno precedente la meteora, la situazione dei parametri economici italiani presentava qualche segno positivo e altrettanti negativi, ma comunque non così critica, considerando una dilagante crisi economica che per anni aveva avuto conseguenze disastrose, unita ad una onnipresente instabilità politica. I primi semestri registravano un rallentamento nella crescita del PIL, che è arrivata a toccare anche lo 0,2%, a fronte di una media europea dell’1,2% per quell’anno. Ma nonostante le tensioni protezionistiche, dominate dalla guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti, la domanda estera era in leggero aumento rispetto al 2018. Malgrado ciò, anche a causa della diminuzione del commercio mondiale, la produttività industriale italiana ne ha risentito, trainata dal calo del settore automobilistico. E sebbene, come detto, la domanda estera era lentamente in aumento, la crescita delle esportazioni era invece passata dal 3,6% del 2018, al 2,3% del 2019. Il dato va a legarsi però ad una diminuzione percentuale dell’import, ovvero non una minore crescita, ma un dato inferiore a quello del precedente anno dello 0,7%, che ha significato un avanzo commerciale del 3,1% (differenza tra beni esportati ed importati), maggiore rispetto al 2018. La disoccupazione mostrava segni positivi, assestandosi intorno al 10%, grazie a 145.000 nuove assunzioni. Il deficit pubblico era in netto calo, ovvero la differenza tra quello che lo stato incassa e quello che spende, passando dal 2,2 all’1,6%. Mentre il debito pubblico rimaneva al valore di 134,8%, molto superiore alla media europea. Questo era il quadro italiano all’indomani della pandemia, che inutile ricordare, è stato interamente stravolto dall’incubo Covid. Il PIL è calato dell’8,9% nel 2020, i consumi delle famiglie residenti del 10,7%, le esportazioni di beni e servizi del 13,8% e l’occupazione del 10,3%. Questi sono i dati più che allarmanti, che hanno segnato una delle più gravi recessioni delle società moderne. Tutto questo si è andato a sommare ad un aumento del divario di crescita tra gli Stati Uniti e l’Europa, in un momento in cui l’asse franco-tedesco stava cercando di colmare il gap con l’alleato atlantico, ma anche l’Italia con il CORE europeo, Berlino in primis. Questo perché vi è stato, a causa della pandemia, un impatto asimmetrico del virus sui diversi paesi europei. Il Covid, come presumibile, ha inciso soprattutto sugli stati il cui traino era rappresentato dal settore dei servizi, ed in particolare dal turismo, dall’arte e dall’intrattenimento. L’economia del Bel Paese, inutile dirlo, era una calamita di turisti per la diversificazione paesaggistica e per la ricchezza artistico-culturale del territorio. In Italia, infatti, il turismo produce il 7% del PIL, ma tenendo conto dei settori principali con cui risulta profondamente legato, ovvero quello alimentare, energetico, metallurgico e di stampa, si arriva al 13% per quanto riguarda il PIL e il 14% per quanto riguarda l’occupazione. Una nota positiva però è doverosamente da riportare, trattando questo settore fortemente colpito: la pandemia ha trasformato profondamente la narrativa di questo business, che ha bruscamente virato verso il turismo sostenibile, con un occhio di riguardo alla domanda interna. Le parole d’ordine sono innovazione digitale, accortezza sanitaria, impatto ambientale e cura del territorio. E d’altronde, la diversificazione dell’impatto covid sull’economia mondiale, significherà altresì una differenziazione nella ripresa. Chi sarà riuscito a digitalizzare più comparti economici possibili, permettendo la non interruzione degli stessi, si rialzerà più in fretta, con meno cerotti. Relativamente al settore dell’industria, in Italia possiamo osservare una situazione meno critica del previsto. La ripartenza della domanda era già cominciata negli ultimi trimestri del 2020, assestando la produttività del settore ad un -2,6% rispetto all’anno precedente, con tutte le dovute differenziazioni in base ai settori industriali, colpiti più o meno duramente. Il livello occupazionale del paese ha risentito meno intensamente rispetto all’immaginario collettivo, segnando un calo degli occupati del 2,8%. Dato però da interpretare con attenzione, perché nonostante le persone ad aver perso il lavoro siano state 170mila, il vero crollo lo si ha avuto nelle ore lavorate pro capite, grazie a forme di riduzione degli orari e al blocco dei licenziamenti. Le misure possono aver temporaneamente mitigato le ripercussioni del virus, che però potrebbero riacutizzarsi in seguito, quando smetteranno di produrre effetti. Da tenere in considerazione anche l’aumento degli inattivi, che pari quasi a mezzo milione, ha sicuramente influito sul dato finale, riducendo il totale della forza lavoro attiva. Ritornando invece al drastico calo percentuale del consumo delle famiglie italiane, si osserva anche un notevole aumento del risparmio privato, anche se forzato, pari circa a 26 miliardi. Questo dato può verosimilmente fare da elemento di traino per l’economia nel prossimo futuro, quando le incertezze occupazionali saranno sciolte e il risparmio si tradurrà in consumo, o in investimento. Il deficit pubblico invece, che era balzato al 9,5% nel 2020, si è momentaneamente abbassato al 7,8% ed è auspicato assestarsi intorno al 4,8% nel 2022. In questo teatro dell’assurdo però, abbiamo potuto osservare il più grande intervento strutturale ad opera dell’Unione Europea mai messo in campo. Il Recovery Fund è il fondo con cui l’Europa aiuterà i Paesi Membri ad uscire dal pantano Covid. Si tratta di prestiti, alcuni dei quali a fondo perduto, per svariati miliardi. L’Italia, ovvero uno dei paesi maggiormente colpiti, e perciò tra i più copiosamente aiutati, dovrebbe ricevere in totale 209 miliardi di euro. L’erogazione e le possibilità di spesa dipendono dal soddisfacimento di determinati standard inclusivi e sostenibili, come indicato dal cosiddetto piano Next Generation EU. Una stima dell’impatto degli aiuti europei sulla crescita degli stati facenti parte, ci aiuta a capire l’enorme portata di questa politica senza precedenti. Le risorse in questione comprenderebbero quantitativamente 14,4 miliardi per il 2021 e ben 20 miliardi per il 2022, che vanno ad aggiungersi alle risorse della legge di bilancio. Le stime predicono una crescita senza fondi europei di un valore compreso tra 0,7 e 0,6% per il biennio 2021-2022, che diventerebbe addirittura di poco più del 4%, se venissero invece elargiti, mediante l’accettazione delle prospettive di investimento italiane.
Capitale: Roma
Ordinamento: Repubblica parlamentare
Superficie: 301.340 km²
Popolazione: 60.185.000
Religioni: cattolica (80%)
Lingue: italiano, tedesco, francese, altre
Moneta: euro (EUR)
PIL: 40,381.422 USD (PIL pro capite PPA prezzi costanti)
Livello di criticità: Basso
Il Regno d’Italia, nato nel 1861 sotto la casa regnante Savoia, diviene Repubblica nel 1946, dopo il ventennio fascista a partito unico (PNF) di Benito Mussolini. L’attuale Costituzione entra in vigore il 1° gennaio 1948. Dalla fine della seconda guerra mondiale fino agli anni di Tangentopoli (1992-1993), che hanno visto il brusco tramonto della Prima Repubblica, il sistema politico-parlamentare italiano si è basato su un sistema elettorale di tipo proporzionale, che garantiva la rappresentanza di tutte le sfumature del panorama politico-ideologico nazionale, e su un sistema consociativista che ha visto i tre maggiori partiti - Democrazia Cristiana, Partito Comunista e Partito Socialista - tenere insieme le redini del potere economico e amministrativo del Paese. Nel 1994, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi con il suo partito Forza Italia, il sistema di rappresentanza si è trasformato da proporzionale puro a bipolare, con la costituzione di due schieramenti - moderati e progressisti - che negli ultimi 18 anni si sono alternati al governo. In questo periodo anche la Costituzione “materiale” ha subito cambiamenti profondi, discostandosi dalla Costituzione “formale”, con un’accentuazione di tipo semipresidenzialista dei poteri del Quirinale e con un importante mutamento nei rapporti tra elettori e Parlamento. Se, infatti, la Costituzione prevede che sia il Presidente della Repubblica a scegliere, dopo le elezioni, il Presidente del Consiglio, nelle ultime tornate elettorali il premier è stato scelto dagli elettori sulla base delle indicazioni dei due maggiori schieramenti contrapposti che sono giunti a indicare, senza alcun avallo formale, il nome del candidato premier sulla scheda elettorale. Oggi il panorama politico in Italia resta incerto: prima, la crisi del governo Berlusconi del novembre 2011, che ha portato alla nomina di Mario Monti a capo di un governo tecnico (cui si è giunti con qualche accentuazione extra-costituzionale dei poteri e delle prerogative del Presidente della Repubblica). Poi, lo scioglimento delle Camere in seguito alle dimissioni del governo Monti il 21 dicembre 2012. Quindi, le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013, che hanno messo in luce una crisi istituzionale che ha preoccupato l'Eurozona, dato che dai risultati elettorali era emerso un quadro di ingovernabilità. L’Italia uscita dalle urne ha visto il successo inaspettato del movimento di protesta “5 Stelle” guidato da Beppe Grillo, che con quei numeri era il primo partito, mentre il Partito Democratico (PD), pur conquistando la maggioranza dei seggi alla Camera, non dispone al Senato - grazie al discreto successo del Popolo della Libertà (PDL), che è riuscito in parte a contenere le perdite - dei numeri sufficienti per governare da solo. Il 20 aprile 2013, il Parlamento italiano ha eletto il nuovo Presidente della Repubblica, ancora Giorgio Napolitano: per la prima volta nella storia repubblicana dell'Italia, è stato conferito un secondo mandato al Presidente uscente. Napolitano ha quindi nominato presidente del Consiglio il democratico Enrico Letta, che ha guidato una coalizione trasversale formata da Partito Democratico (PD), Popolo della Libertà (PDL) e Scelta Civica (la lista del premier uscente Mario Monti). Il nuovo governo ha ottenuto la fiducia il 29 aprile 2013, ma il 14 febbraio 2014, dopo meno di un anno, Enrico Letta si è dimesso. Al suo posto, è stato nominato Matteo Renzi, segretario del PD e più giovane premier della storia d'Italia. Il suo è il sessantesimo governo della Repubblica ed è composto per la prima volta dalla metà di ministri donne. Della coalizione governativa fanno parte anche in questo caso: PD, Nuovo Centro Destra e Scelta Civica. Il governo Renzi ha giurato il 22 febbraio 2014. Dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano, il 31 gennaio del 2015 Sergio Mattarella è stato eletto al quarto scrutinio presidente della Repubblica con 665 voti, poco meno dei due terzi dell’assemblea elettiva. Settantaquattro anni, giudice della Corte costituzionale dal 2011, Mattarella ha prestato giuramento il 3 febbraio, dopo le dimissioni di Napolitano, a causa dell’età. Anche il governo Renzi ha avuto vita breve: l’ex sindaco di Firenze, infatti, ha proposto un referendum nazionale per un imponente emendamento costituzionale, personalizzando la campagna referendaria e promettendo le dimissioni in caso di vittoria del “No”. La popolazione si è schierata contro la proposta del presidente del consiglio e il 7 dicembre 2016, come annunciato, sono arrivate le dimissioni. Dopo poco meno di una settimana le consultazioni hanno portato alla formazione del governo Gentiloni, che si è protratto fino a marzo 2018. di fatti, le elezioni politiche del 4 marzo hanno indicato il M5S come primo partito d’Italia, mentre la coalizione di centro-destra come raggruppamento politico con più voti. La coalizione, non potendo governare senza l’avvallo dei 5 Stelle, non ha potuto formare un governo. Per questo motivo, un improbabile accordo tra le fila di Salvini e di Di Maio ha dato vita al cosiddetto governo giallo-verde, con presidente del consiglio Giuseppe Conte, ex avvocato e giurista non candidato alle elezioni. Il clima di tensione all’interno della maggioranza però è cresciuto sensibilmente, soprattutto a causa delle europee del 2019, che hanno visto mutare i rapporti di forza in favore della Lega Nord. Il clima insostenibile ha portato alle dimissioni del primo governo Conte, che è poi stato incaricato di formare un’altra maggioranza. Richiesta che si è concretizzata con l’accordo tra Movimento 5 Stelle e PD, oltre ad altri partiti di sinistra, che sono andati a formare il governo giallorosso, che ha sostituito la sfumatura verde tra le fila della maggioranza. Con lo scoppio della pandemia di Covid e la necessità di gestire gli ingenti fondi provenienti dall’UE e dal cosiddetto Recovery Fund, che ha messo a disposizione dell’Italia 209 miliardi, molti dei quali a fondo perduto, si sono esplicitate molte differenze di vedute tra i ministri del nuovo governo. Italia Viva, l’appena nato partito dell’ex premier Matteo Renzi, ha a più riprese definito inaccettabile l’iniziale piano di Conte e si è perciò arrivati alle dimissioni delle due ministre Bonetti e Bellanova, provenienti dal suo partito. La maggioranza parlamentare è perciò venuta meno per l’ennesima volta e per l’impossibilità di Conte di trovarne un’altra, si è dovuto cercare una nuova figura che mettesse d’accordo i partiti; molti dei quali invocavano la necessità di un governo di unità nazionale, per gestire quello che era un vero e proprio snodo epocale. Mattarella ha dunque convocato Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, figura vicina alle istituzioni comunitarie, che sebbene non avesse un solito passato in politica, conosceva bene i meccanismi economico-finanziari per trainare il paese verso la rinascita post pandemica. Il 13 febbraio il nuovo esecutivo tecnico-politico ha prestato ufficialmente giuramento, entrando in carica. Anche per quanto riguarda la politica estera italiana, il nascente governo Draghi si trova oggi a dover fronteggiare problematiche che segneranno punti di svolta per lo stivale. Come ribadito nel discorso di insediamento alle camere, il premier mette al centro del suo progetto politico un forte sentimento atlantista e un rinnovato desiderio di un’Europa forte e più coesa. Quest’ultimo aspetto passa in prima istanza per quello che in questi ultimi anni sta rappresentando un vero punto critico per i paesi meridionali, ovvero il tema migranti. L’Italia spinge a gran voce per modificare il trattato di Dublino, che inchioda i paesi di primo ingresso, quindi soprattutto Italia, Grecia, Cipro e Spagna a dover sostenere l’onere di primo soccorso, identificazione, assistenza e inserimento nella società dei migranti che sbarcano nelle coste dei paesi membri. La necessità è senza dubbio quella di trovare un sistema di condivisione ed equa ripartizione, come anche quella di fare accordi per i rimpatri con i paesi di partenza. In questo senso, un altro dossier caldo è rappresentato proprio dai rapporti bilaterali con il nascente governo libico, che cerca di lasciarsi alle spalle un decennio segnato dalla guerra civile. L’ultimo tentativo in tal merito è stato il memorandum italo-libico firmato dal ministro Minniti nel 2018, con cui l’Italia elargiva finanziamenti alla guardia costiera libica, per un controllo delle partenze. La questione migranti si interseca anche con il dialogo con la Turchia, paese di transito di centinaia di migliaia di sfollati siriani. Al centro della questione anche il tema diritti umani, diretta conseguenza del tema migrazione e non solo, che interessa anche i rapporti con la Russia e la Cina, due partner fondamentali per l’Italia e per l’Europa. Draghi cercherà di mediare tra le questioni riguardanti le libertà fondamentali, prerogativa dei paesi democratico-liberali, e la necessità di portare avanti obiettivi strategici di lungo periodo. All’interno dell’Unione invece, come preventivabile, si riafferma l’irreversibilità dell’Eurozona, messa sotto accusa in questi anni da diversi partiti mediaticamente definiti populisti.
Un report economico sulla situazione dell’Italia nel 2021 non può prescindere dal cominciare con l’analisi di ciò che ha rappresentato il Covid-19 per il nostro paese. Il 2020 è stato metaforicamente colpito da una meteora sanitaria, che ha significato vittime fisiche e vittime sistemiche. Nel 2019, anno precedente la meteora, la situazione dei parametri economici italiani presentava qualche segno positivo e altrettanti negativi, ma comunque non così critica, considerando una dilagante crisi economica che per anni aveva avuto conseguenze disastrose, unita ad una onnipresente instabilità politica. I primi semestri registravano un rallentamento nella crescita del PIL, che è arrivata a toccare anche lo 0,2%, a fronte di una media europea dell’1,2% per quell’anno. Ma nonostante le tensioni protezionistiche, dominate dalla guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti, la domanda estera era in leggero aumento rispetto al 2018. Malgrado ciò, anche a causa della diminuzione del commercio mondiale, la produttività industriale italiana ne ha risentito, trainata dal calo del settore automobilistico. E sebbene, come detto, la domanda estera era lentamente in aumento, la crescita delle esportazioni era invece passata dal 3,6% del 2018, al 2,3% del 2019. Il dato va a legarsi però ad una diminuzione percentuale dell’import, ovvero non una minore crescita, ma un dato inferiore a quello del precedente anno dello 0,7%, che ha significato un avanzo commerciale del 3,1% (differenza tra beni esportati ed importati), maggiore rispetto al 2018. La disoccupazione mostrava segni positivi, assestandosi intorno al 10%, grazie a 145.000 nuove assunzioni. Il deficit pubblico era in netto calo, ovvero la differenza tra quello che lo stato incassa e quello che spende, passando dal 2,2 all’1,6%. Mentre il debito pubblico rimaneva al valore di 134,8%, molto superiore alla media europea. Questo era il quadro italiano all’indomani della pandemia, che inutile ricordare, è stato interamente stravolto dall’incubo Covid. Il PIL è calato dell’8,9% nel 2020, i consumi delle famiglie residenti del 10,7%, le esportazioni di beni e servizi del 13,8% e l’occupazione del 10,3%. Questi sono i dati più che allarmanti, che hanno segnato una delle più gravi recessioni delle società moderne. Tutto questo si è andato a sommare ad un aumento del divario di crescita tra gli Stati Uniti e l’Europa, in un momento in cui l’asse franco-tedesco stava cercando di colmare il gap con l’alleato atlantico, ma anche l’Italia con il CORE europeo, Berlino in primis. Questo perché vi è stato, a causa della pandemia, un impatto asimmetrico del virus sui diversi paesi europei. Il Covid, come presumibile, ha inciso soprattutto sugli stati il cui traino era rappresentato dal settore dei servizi, ed in particolare dal turismo, dall’arte e dall’intrattenimento. L’economia del Bel Paese, inutile dirlo, era una calamita di turisti per la diversificazione paesaggistica e per la ricchezza artistico-culturale del territorio. In Italia, infatti, il turismo produce il 7% del PIL, ma tenendo conto dei settori principali con cui risulta profondamente legato, ovvero quello alimentare, energetico, metallurgico e di stampa, si arriva al 13% per quanto riguarda il PIL e il 14% per quanto riguarda l’occupazione. Una nota positiva però è doverosamente da riportare, trattando questo settore fortemente colpito: la pandemia ha trasformato profondamente la narrativa di questo business, che ha bruscamente virato verso il turismo sostenibile, con un occhio di riguardo alla domanda interna. Le parole d’ordine sono innovazione digitale, accortezza sanitaria, impatto ambientale e cura del territorio. E d’altronde, la diversificazione dell’impatto covid sull’economia mondiale, significherà altresì una differenziazione nella ripresa. Chi sarà riuscito a digitalizzare più comparti economici possibili, permettendo la non interruzione degli stessi, si rialzerà più in fretta, con meno cerotti. Relativamente al settore dell’industria, in Italia possiamo osservare una situazione meno critica del previsto. La ripartenza della domanda era già cominciata negli ultimi trimestri del 2020, assestando la produttività del settore ad un -2,6% rispetto all’anno precedente, con tutte le dovute differenziazioni in base ai settori industriali, colpiti più o meno duramente. Il livello occupazionale del paese ha risentito meno intensamente rispetto all’immaginario collettivo, segnando un calo degli occupati del 2,8%. Dato però da interpretare con attenzione, perché nonostante le persone ad aver perso il lavoro siano state 170mila, il vero crollo lo si ha avuto nelle ore lavorate pro capite, grazie a forme di riduzione degli orari e al blocco dei licenziamenti. Le misure possono aver temporaneamente mitigato le ripercussioni del virus, che però potrebbero riacutizzarsi in seguito, quando smetteranno di produrre effetti. Da tenere in considerazione anche l’aumento degli inattivi, che pari quasi a mezzo milione, ha sicuramente influito sul dato finale, riducendo il totale della forza lavoro attiva. Ritornando invece al drastico calo percentuale del consumo delle famiglie italiane, si osserva anche un notevole aumento del risparmio privato, anche se forzato, pari circa a 26 miliardi. Questo dato può verosimilmente fare da elemento di traino per l’economia nel prossimo futuro, quando le incertezze occupazionali saranno sciolte e il risparmio si tradurrà in consumo, o in investimento. Il deficit pubblico invece, che era balzato al 9,5% nel 2020, si è momentaneamente abbassato al 7,8% ed è auspicato assestarsi intorno al 4,8% nel 2022. In questo teatro dell’assurdo però, abbiamo potuto osservare il più grande intervento strutturale ad opera dell’Unione Europea mai messo in campo. Il Recovery Fund è il fondo con cui l’Europa aiuterà i Paesi Membri ad uscire dal pantano Covid. Si tratta di prestiti, alcuni dei quali a fondo perduto, per svariati miliardi. L’Italia, ovvero uno dei paesi maggiormente colpiti, e perciò tra i più copiosamente aiutati, dovrebbe ricevere in totale 209 miliardi di euro. L’erogazione e le possibilità di spesa dipendono dal soddisfacimento di determinati standard inclusivi e sostenibili, come indicato dal cosiddetto piano Next Generation EU. Una stima dell’impatto degli aiuti europei sulla crescita degli stati facenti parte, ci aiuta a capire l’enorme portata di questa politica senza precedenti. Le risorse in questione comprenderebbero quantitativamente 14,4 miliardi per il 2021 e ben 20 miliardi per il 2022, che vanno ad aggiungersi alle risorse della legge di bilancio. Le stime predicono una crescita senza fondi europei di un valore compreso tra 0,7 e 0,6% per il biennio 2021-2022, che diventerebbe addirittura di poco più del 4%, se venissero invece elargiti, mediante l’accettazione delle prospettive di investimento italiane.
Un report economico sulla situazione dell’Italia nel 2021 non può prescindere dal cominciare con l’analisi di ciò che ha rappresentato il Covid-19 per il nostro paese. Il 2020 è stato metaforicamente colpito da una meteora sanitaria, che ha significato vittime fisiche e vittime sistemiche. Nel 2019, anno precedente la meteora, la situazione dei parametri economici italiani presentava qualche segno positivo e altrettanti negativi, ma comunque non così critica, considerando una dilagante crisi economica che per anni aveva avuto conseguenze disastrose, unita ad una onnipresente instabilità politica. I primi semestri registravano un rallentamento nella crescita del PIL, che è arrivata a toccare anche lo 0,2%, a fronte di una media europea dell’1,2% per quell’anno. Ma nonostante le tensioni protezionistiche, dominate dalla guerra dei dazi tra Cina e Stati Uniti, la domanda estera era in leggero aumento rispetto al 2018. Malgrado ciò, anche a causa della diminuzione del commercio mondiale, la produttività industriale italiana ne ha risentito, trainata dal calo del settore automobilistico. E sebbene, come detto, la domanda estera era lentamente in aumento, la crescita delle esportazioni era invece passata dal 3,6% del 2018, al 2,3% del 2019. Il dato va a legarsi però ad una diminuzione percentuale dell’import, ovvero non una minore crescita, ma un dato inferiore a quello del precedente anno dello 0,7%, che ha significato un avanzo commerciale del 3,1% (differenza tra beni esportati ed importati), maggiore rispetto al 2018. La disoccupazione mostrava segni positivi, assestandosi intorno al 10%, grazie a 145.000 nuove assunzioni. Il deficit pubblico era in netto calo, ovvero la differenza tra quello che lo stato incassa e quello che spende, passando dal 2,2 all’1,6%. Mentre il debito pubblico rimaneva al valore di 134,8%, molto superiore alla media europea. Questo era il quadro italiano all’indomani della pandemia, che inutile ricordare, è stato interamente stravolto dall’incubo Covid. Il PIL è calato dell’8,9% nel 2020, i consumi delle famiglie residenti del 10,7%, le esportazioni di beni e servizi del 13,8% e l’occupazione del 10,3%. Questi sono i dati più che allarmanti, che hanno segnato una delle più gravi recessioni delle società moderne. Tutto questo si è andato a sommare ad un aumento del divario di crescita tra gli Stati Uniti e l’Europa, in un momento in cui l’asse franco-tedesco stava cercando di colmare il gap con l’alleato atlantico, ma anche l’Italia con il CORE europeo, Berlino in primis. Questo perché vi è stato, a causa della pandemia, un impatto asimmetrico del virus sui diversi paesi europei. Il Covid, come presumibile, ha inciso soprattutto sugli stati il cui traino era rappresentato dal settore dei servizi, ed in particolare dal turismo, dall’arte e dall’intrattenimento. L’economia del Bel Paese, inutile dirlo, era una calamita di turisti per la diversificazione paesaggistica e per la ricchezza artistico-culturale del territorio. In Italia, infatti, il turismo produce il 7% del PIL, ma tenendo conto dei settori principali con cui risulta profondamente legato, ovvero quello alimentare, energetico, metallurgico e di stampa, si arriva al 13% per quanto riguarda il PIL e il 14% per quanto riguarda l’occupazione. Una nota positiva però è doverosamente da riportare, trattando questo settore fortemente colpito: la pandemia ha trasformato profondamente la narrativa di questo business, che ha bruscamente virato verso il turismo sostenibile, con un occhio di riguardo alla domanda interna. Le parole d’ordine sono innovazione digitale, accortezza sanitaria, impatto ambientale e cura del territorio. E d’altronde, la diversificazione dell’impatto covid sull’economia mondiale, significherà altresì una differenziazione nella ripresa. Chi sarà riuscito a digitalizzare più comparti economici possibili, permettendo la non interruzione degli stessi, si rialzerà più in fretta, con meno cerotti. Relativamente al settore dell’industria, in Italia possiamo osservare una situazione meno critica del previsto. La ripartenza della domanda era già cominciata negli ultimi trimestri del 2020, assestando la produttività del settore ad un -2,6% rispetto all’anno precedente, con tutte le dovute differenziazioni in base ai settori industriali, colpiti più o meno duramente. Il livello occupazionale del paese ha risentito meno intensamente rispetto all’immaginario collettivo, segnando un calo degli occupati del 2,8%. Dato però da interpretare con attenzione, perché nonostante le persone ad aver perso il lavoro siano state 170mila, il vero crollo lo si ha avuto nelle ore lavorate pro capite, grazie a forme di riduzione degli orari e al blocco dei licenziamenti. Le misure possono aver temporaneamente mitigato le ripercussioni del virus, che però potrebbero riacutizzarsi in seguito, quando smetteranno di produrre effetti. Da tenere in considerazione anche l’aumento degli inattivi, che pari quasi a mezzo milione, ha sicuramente influito sul dato finale, riducendo il totale della forza lavoro attiva. Ritornando invece al drastico calo percentuale del consumo delle famiglie italiane, si osserva anche un notevole aumento del risparmio privato, anche se forzato, pari circa a 26 miliardi. Questo dato può verosimilmente fare da elemento di traino per l’economia nel prossimo futuro, quando le incertezze occupazionali saranno sciolte e il risparmio si tradurrà in consumo, o in investimento. Il deficit pubblico invece, che era balzato al 9,5% nel 2020, si è momentaneamente abbassato al 7,8% ed è auspicato assestarsi intorno al 4,8% nel 2022. In questo teatro dell’assurdo però, abbiamo potuto osservare il più grande intervento strutturale ad opera dell’Unione Europea mai messo in campo. Il Recovery Fund è il fondo con cui l’Europa aiuterà i Paesi Membri ad uscire dal pantano Covid. Si tratta di prestiti, alcuni dei quali a fondo perduto, per svariati miliardi. L’Italia, ovvero uno dei paesi maggiormente colpiti, e perciò tra i più copiosamente aiutati, dovrebbe ricevere in totale 209 miliardi di euro. L’erogazione e le possibilità di spesa dipendono dal soddisfacimento di determinati standard inclusivi e sostenibili, come indicato dal cosiddetto piano Next Generation EU. Una stima dell’impatto degli aiuti europei sulla crescita degli stati facenti parte, ci aiuta a capire l’enorme portata di questa politica senza precedenti. Le risorse in questione comprenderebbero quantitativamente 14,4 miliardi per il 2021 e ben 20 miliardi per il 2022, che vanno ad aggiungersi alle risorse della legge di bilancio. Le stime predicono una crescita senza fondi europei di un valore compreso tra 0,7 e 0,6% per il biennio 2021-2022, che diventerebbe addirittura di poco più del 4%, se venissero invece elargiti, mediante l’accettazione delle prospettive di investimento italiane.