Cattedrale, moschea, museo o di nuovo moschea, nella sua bellezza e grandezza, con la sua cupola e i quattro minareti Hagia Sophia continuerà a dominare Istanbul. Sarà sempre lì, in quel luogo e con quella magnificenza a dimostrare che chiunque governi, quel luogo rimarrà uno dei nostri pochi collegamenti diretti con l’infinito, comunque lo dovremo chiamare.
Ma il Consiglio di stato, la principale corte amministrativa turca, ha appena stabilito che Santa Sofia «è una moschea e il suo uso fuori da questo carattere non è legalmente possibile».
Ed ha un che di stonato la rassicurazione di Ibrahim Kalin, portavoce della presidenza della repubblica: «L’apertura di una moschea non impedirà ai turisti interni e internazionali di visitare il sito». Prima della pandemia lo avevano fatto in 3,7 milioni, venuti a Istanbul da tutto il mondo. È la burocrazia che commette il delitto di ubris di confrontarsi con un millennio e mezzo di storia, di assedi e di conquiste, di tragedie e di grandezza.
«O Salomone! Ti ho superato», disse l’imperatore Giustiniano I, quando entrò per la prima volta nella cattedrale che aveva voluto per dare nobiltà alla sua Seconda Roma, Costantinopoli. Era il 537. Nel 1204, i cavalieri franchi, tedeschi, inglesi e italiani della Quarta crociata, sulla strada per riconquistare Gerusalemme – che non avrebbero mai liberato – ne approfittarono per saccheggiare la città, nel frattempo di nuovo chiamata Bisanzio. Santa Sofia non fu risparmiata.
La prima cosa che Mehmet II fece nel 1453, appena conquistata la città, fu di officiare la preghiera del venerdì nella cattedrale. Circa quattro secoli prima, nel 1187, presa Gerusalemme alla fine di un lungo assedio, Salad ed-Din (“Il feroce Saladino”) aveva deciso di non entrare nel Santo Sepolcro. Se lo avesse fatto, disse, i suoi seguaci e successori avrebbero trasformato in moschea il luogo più importante della cristianità. Musulmani o cristiani, pochi conquistatori hanno mostrato la stessa magnanimità verso i luoghi di culto dell’avversario. Mehmet non fu tra questi. Santa Sofia fu trasformata in moschea: si costruirono quattro minareti, icone cristiane e mosaici dorati furono coperti.
Solo nel 1934 Mustafa Kemal Ataturk, padre e modernizzatore laico della Turchia contemporanea prima dell’avvento del fratello musulmano Recep Erdogan, cambiò di nuovo lo scopo di Santa Sofia: non rimase moschea, non tornò ad essere cattedrale ma diventò un museo. Il museo in memoria e rispetto di uno di quei rari momenti in cui l’operosità degli uomini sa avvicinarsi a Dio, in qualsiasi modo lo si voglia chiamare.
L’egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il mandante morale della tortura e dell’omicidio di Giulio Regeni, nel 2013 aveva esautorato con un colpo di stato i Fratelli musulmani, democraticamente eletti. Solo Recep Erdogan, del braccio turco della fratellanza islamica, riesce a giustificare il gesto brutale di al Sisi. Se i veri Fratelli musulmani sono quelli che oggi dominano la Turchia, meglio che non governino anche l’Egitto. Dopo aver sviluppato e modernizzato l’economia turca, Erdogan ha incominciato a trasformare il suo paese in uno dei peggiori modelli nazional-religiosi del Mediterraneo. Alle smodate ambizioni geopolitiche, alla brutalità esercitata contro gli oppositori interni, la sua Turchia ora mostra anche il volto dell’assolutismo religioso. Grazie alla rassicurazione del portavoce presidenziale, potremo ancora continuare a visitare Santa Sofia e a restarne commossi, come sempre.
Ma non è questo il punto. La grandezza di quel luogo, opposta al neo-imperialismo ottomano di Erdogan, stava nell’essere il luogo di nessuna fede e di tutti gli uomini.
Pubblicato su 24+ del Sole 24 Ore, il 10/7
Per approfondire:
Il ritratto del presidente turco Recep Tayyip Erdogan della giornalista Marta Ottaviani nel volume edito da Paesi Edizioni “Leaders, i volti del potere mondiale”. Erdogan, il calciatore che si fece sovrano. La Turchia islamo-nazionalista e nostalgica dell’Impero ottomano.
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