Cosa succede in Argentina? Il sistema di Primarie obbligatorie ad agosto che fu stabilito nel 2009 è ormai da molti ritenuto un doppione inutile del vero voto di ottobre, e la stampa internazionale le aveva prese abbastanza sotto gamba. Invece l’11 agosto il presidente Mauricio Macri è finito oltre 15 punti sotto la coppia di sfidanti Alberto Fernández–Cristina Fernández de Kirchner: 32,1% contro il 47,7. E ciò ha innescato un crollo del 48% della Borsa e del 15% del peso che ha depresso i mercati mondiali, già comunque agitate per la guerra dei dazi tra Usa e Cina e per il rallentamento tedesco. Lettera43.it ne ha parlato con Diego Dillenberger: un commentatore politico argentino famoso per il suo programma tivù La Hora de Maquiavelo. Dillenberger era stato un sostenitore di Macri, ma da tempo denunciava sia la scarsa incisività delle sue riforme sia l’inefficacia dello stile di comunicazione.
Macri ha detto che crede di poter recuperare questo ritardo di qui al voto del 27 ottobre. Ce la può fare?
No, è impossibile. Il 15% di distacco è troppo.
Le conseguenze si sono sentite anche in Borsa.
Sì, il risultato è stato un crollo dei mercati. Non solo per un riaggiustamento del rialzo che si era avuto sulla base di questi sondaggi ingannevoli, ma per l’evidenza che il kirchnerismo tornerà al potere. In più, oltre alla caduta dei bond e delle azioni, c’è stata una forte salita del dollaro, e lì c’è responsabilità del governo.
Perché?
Macri ha dato alla Banca centrale un ordine di non intervenire abbastanza poco responsabile, visto che il livello del dollaro aveva superato quella banda oltre la quale lo stesso Fondo monetario internazionale raccomanda di intervenire. Sembra quasi che lo abbia fatto apposta per mettere paura agli elettori. Come a dire: vedete come hanno reagito i mercati? Se torna al potere il kirchnerismo succede questo…
Macri invece?
Si è comportato in maniera abbastanza elettoralista e opportunista, commettendo anche l’errore di credere che la gente avrebbe dato la colpa del crollo dei mercati al governo che verrà dopo e non a lui, che ha già quattro anni di cattiva gestione. È un grave errore, perché l’aumento del dollaro in Argentina provoca immediatamente inflazione con una rapidità che non si riscontra in nessun altro Paese al mondo.
Cristina Kirchner è candidata alla vicepresidenza, qualcuno dice per ottenere l’immunità parlamentare che la protegga dalle inchieste e che da presidente della Repubblica non avrebbe. Altri sospettano però che Fernández sia un fantoccio che si dimetterebbe in un mese.
Nessuno può sapere se Fernández lascerà la presidenza a Cristina. Possiamo solo pregare che non sia così. Un ritorno di Cristina dalla finestra veramente rischierebbe di portarci sui passi del Venezuela.
Ma perché l’Argentina continua ciclicamente a ricadere in questo tipo di crisi?
Dal 1975 subiamo periodicamente gravi crisi inflazionistiche, con tracolli economici e finanziari ogni 7-10 anni. Il periodo più lungo senza crisi è stato dal 1991 al 2001. Il motivo, sinteticamente, è che l’Argentina non si è potuta liberare del peronismo: non dico del peronismo come partito, ma come cultura.
Cioè?
La cultura del peronismo, che è una forma argentina di populismo, spiegata nel modo più semplice significa che si spende più di quello che si guadagna. Fino al 1945 l’Argentina non aveva mai conosciuto l’inflazione, al contrario aveva una moneta molto stabile ed era un Paese molto prospero. Perón in due anni consumò tutte le riserve. Si comprò una immensa popolarità, ma iniziò a generare inflazione.
Poi cosa accadde?
Tra 1955 e 1975 abbiamo avuto di nuovo una certa stabilità economica, ma in seguito è tornato il peronismo. Nel 1975 ci fu la prima grande nostra iper inflazione: il Rodrigazo. Iper inflazione e terrorismo portarono al golpe del marzo 1976, che culminò nella Guerra delle Malvinas e in una nuova crisi economica.
Dopo è successo di nuovo…
Alfonsín tra il 1983 e il 1989 terminò ancora nella peggiore delle iper inflazioni, con numeri molto simili a quelli che vediamo oggi in Venezuela. Lì venne Menem, che ebbe a sua volta un picco iper inflazionario, ma poi dopo due anni col ministro Domingo Cavallo trovò la convertibilità.
Che legò il peso al dollaro.
Ebbe successo, e avrebbe potuto continuare a essere molto di successo nel generare investimento, prevedibilità, stabilità economica e finanziaria. Ma si continuò a spendere più di quanto raccolto dalle imposte, e poiché con la convertibilità non si poteva più stampare denaro, l’Argentina iniziò a fare debiti. Ci sarebbe voluto un aggiustamento fiscale che Menem non volle fare, perché anche lui era peronista. Il sistema finì per scoppiare con Fermando de la Rúa, e si ebbe così la crisi del 2001-02.
Risolta con l’arrivo al governo dei Kirchner.
Sì: con una ricetta magica che consisteva nell’intervenire sull’Istituto di statistica per fargli truccare i numeri dell’inflazione. In realtà è continuata allo stesso ritmo che c’è stato poi con Macri: 2% al mese in media. Macri aveva promesso di eliminarla, ma non ci è riuscito. E tutto gli è scoppiato in faccia nel 2018, quando fu chiaro che non avrebbero prestato più nulla all’Argentina.
Diceva che in nessun Paese al mondo il rialzo del dollaro innesca inflazione come in Argentina.
Perché il risvolto di questa cultura inflazionaria è che tutti gli argentini si cautelano comprando dollari. Di fatto è un errore dire che l’Argentina ha come moneta il peso. L’Argentina è un sistema bimonetario perché la vera moneta degli argentini è e continua a essere il dollaro, dall’epoca di Perón.
Non ufficialmente, però.
Solamente all’epoca di Menem la convertibilità ha riconosciuto il dollaro come moneta di corso legale al fianco del peso. Il rialzo del dollaro di questi giorni già si inizia a trasmettere in molti prezzi, prima all’ingrosso e poi al dettaglio. Per Macri significa arrivare alle elezioni reali del 27 ottobre con un picco di inflazione che gli impedirà la rielezione.
Come si potrebbe uscire da questa spirale?
Nessun politico ha il coraggio di dirlo agli argentini, ma la verità è che questo Stato è finanziabile solamente con le imposte solo al patto di ridurle. Ma il fatto è che noi abbiamo un sistema di Diritto del lavoro che Perón copiò dalla Carta del lavoro di Mussolini, e che ha reso il mercato del lavoro particolarmente rigido.
Per esempio?
Le piccole imprese, che fanno il 70% del settore privato, tendono a non assumere, e l’economia ha bisogno di crescere molti per creare impiego. E allora interviene lo Stato, riempiendosi di dipendenti pubblici non necessari. Solo i Kirchner ne hanno aggiunti 2 milioni ai 3 milioni che già c’erano, su una popolazione di 43 milioni di abitanti.
Maurizio Stefanini
Romano, classe 1961, maturità classica, laurea in Scienze Politiche alla Luiss, giornalista dal 1988. Specialista in America Latina, Terzo Mondo, movimenti politici comparati, approfondimenti storici.
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