Il sottosuolo del Venezuela è così ricco di idrocarburi, da farne il primo al mondo come riserve di petrolio: un tesoro di circa 303 miliardi di barili, principalmente concentrati nel bacino del fiume Orinoco. Non è un caso che l’export di petrolio costituisca oltre il 95% dell’export totale del Paese, e contribuisca a circa la metà del budget del Governo. Inoltre, sempre il bacino dell’Orinoco è considerato ricco di riserve di coltan, diamanti, uranio, e soprattutto oro. Tanto che nel 2016 il Presidente Nicolás Maduro ha lanciato l’iniziativa “Orinoco Mining Arc” per attirare investimenti e imprese internazionali al fine di sviluppare l’industria estrattiva del prezioso minerale.
Eppure, nonostante tutti questi fattori spesso concorrano ad affermare che il Venezuela sia tra i più ricchi Paesi al mondo, la situazione economica attuale rimane particolarmente critica. Come mai? La risposta sta in una constatazione tanto semplice, quanto determinante: non basta avere abbondanti risorse naturali, serve anche saperle e poterle estrarre efficacemente.
Petrolio pesante
Nonostante le sue riserve il Venezuela – con i suoi 1,34 milioni di barili al giorno (Mb/d) registrati a fine 2018 e 1,1 a febbraio 2019, in calo progressivo dal 2000 (quando produceva circa 3,2 Mb/d) – non è nemmeno tra i primi dieci produttori al mondo. Il problema principale? Risiede nella sua qualità: non tutto il petrolio, infatti, è uguale. La composizione chimico-fisica può variare anche notevolmente da area geografica ad area geografica e da giacimento a giacimento: più un greggio è classificato come “pesante”, più sarà difficile da estrarre e raffinare. In aggiunta, va considerato il contenuto di zolfo che, se presente in quantità considerevole come nel caso venezuelano, può dare problemi di corrosione negli impianti estrattivi: in tal caso, sono necessari particolari e costosi trattamenti.
Basti sapere che, degli oltre 300 miliardi di barili di riserve venezuelane, solo 80 sono di greggio convenzionale – cioè facilmente estraibile e lavorabile – mentre ben 220 miliardi (proprio quelli del bacino dell’Orinoco) sono classificati come “non convenzionali”, cioè ultra-pesanti e particolarmente ricchi di zolfo. In altre parole, estrarlo è tecnicamente molto difficile, richiede tecniche costose e anche la raffinazione necessita di impianti particolari che possano gestire tale tipologia. Tutto questo esige naturalmente ingenti fondi e alta professionalità. Ed è qui che ci si scontra con l’altro grave problema del mondo petrolifero venezuelano: l’inefficienza e la mancanza di fondi.
Il crollo dei prezzi del petrolio del 2014 ha reso economicamente non sostenibili le tecniche di estrazione necessarie all’industria estrattiva locale e, come se non bastasse, le sanzioni statunitensi hanno impedito al Venezuela di attrarre compagnie petrolifere estere che avessero il necessario know-how. A questo si aggiunga una gestione domestica discutibile, con la compagnia statale Petróleos de Venezuela SA (PDVSA) coinvolta prima in vari scandali, poi a corto di liquidità e infine (da novembre 2017) posta sotto la guida del Generale Manuel Quevedo, molto più conosciuto per la cieca fedeltà a Maduro che non per la sua competenza tecnica.
L’insufficienza di competenze degli amministratori e un alto livello di conflittualità politica interna si sono combinate alla mancanza di fondi, portando così a carenze sempre maggiori nella manutenzione e all’impossibilità d’investimenti tecnologici indispensabili. Da qui il progressivo calo di produzione osservato. Il governo venezuelano spera ora nell’intervento di compagnie e capitali russo-cinesi per invertire la tendenza e sopperire alle sanzioni USA, ma ciò che maggiormente servirebbe, oltre a una gestione migliore, è un forte rialzo del prezzo del petrolio: cosa che non sembra avverrà a breve.
Oro e sangue sull’Orinoco
Analoghi problemi esistono per quanto riguarda le riserve auree dell’Orinoco: il sogno di una fiorente attività estrattiva che aiuti a sostenere l’economia del Paese rimane appunto solo un sogno, perché il controllo reale di Caracas su tali aree rimane precario e, spesso, solo nominale. Le attività estrattive aurifere esistono, ma sono in gran parte portate avanti da una popolazione che, impoveritasi per la situazione generale, ha preferito rivolgersi al settore minerario illegale, anche se in condizioni di lavoro difficili e con poche tutele.
Inoltre, come riporta l’International Crisis Group, i minatori sono spesso sotto il controllo più o meno diretto di cartelli criminali (i cosiddetti sindicatos) o di gruppi di guerriglieri colombiani che sconfinano: soprattutto membri dell’ELN e dissidenti delle FARC, che non hanno accettato la pace siglata col governo di Bogotá. Persino dove l’Esercito venezuelano ha il controllo del territorio, spesso è esso stesso a favorire traffici e illegalità, per proprio interesse. Tutte queste fazioni combattono poi tra loro, con la conseguenza che gli omicidi sono all’ordine del giorno, i giovani vengono costretti a lavorare nelle miniere (chi può fugge oltre confine) ed è stata recentemente riportata anche una grave epidemia di malaria.
Ecco spiegato perché gran parte dell’oro estratto viene contrabbandato fuori confine, spesso attraverso la Colombia, e perché questa voce non contribuisce a migliorare le finanze nazionali. In tali condizioni, sarà sempre più difficile attirare investimenti internazionali. Per prima cosa, in ogni caso, servirebbe una stabilità istituzionale che consentisse una decisa opera di stabilizzazione. Ma ancora non ve n’è traccia.
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