La maglietta azzurra e il megafono sono i tratti distintivi della controversa figura di Edward Leung, emerso quale possibile guru delle proteste di Hong Kong. Un movimento privo di leader apparenti a guida delle manifestazioni, che tuttavia sembra trarre sempre maggiore ispirazione da questo ragazzo di 28 anni, studente e attivista, membro del movimento localista Hong Kong Indigenous. Leung è stato arrestato a seguito della partecipazione agli scontri avvenuti nel 2016 nel quartiere di Mong Kok, quando era candidato alle elezioni per il parlamento locale. Nel documentario del 2017 Lost in the Fumes, incentrato sulla sua vita, si era definito un perdente perché non riusciva a laurearsi e trovare lavoro. Dopo aver partecipato al Movimento degli ombrelli del 2014, racconta, la sua esistenza ha acquistato improvvisamente senso. Leung non ha l’aspetto di un leader, ma viene considerato quasi un oracolo, una Cassandra. Le sue istanze, percepite come eccessive, radicali e xenofobe stanno trovando sempre più sostegno tra i giovani di Hong Kong. I metodi violenti sembrano ora non solo accettati, ma quasi necessari.
Tutto comincia del 2016 quando Leung si pone a difesa dei venditori ambulanti di polpette di pesce, una vecchia tradizione del Capodanno cinese molto sentita dagli abitanti del quartiere di Mong Kok. Leung si era posto a difesa degli ambulanti contro cui il governo locale cercava di applicare una nuova misura contaria all’abusivismo. Per alcuni, l’odore e la presenza ingombrante delle bancarelle era fastidiosa, ma per Leung e altri, la lotta per le polpette di pesce era l’esempio della resistenza contro il governo filocinese e contro l’erosione dell’identità dei cittadini di Hong Kong ad opera della Cina. Leung a causa della Fish Ball Revolution è stato incarcerato, ha amesso di aver assalito i poliziotti e ha subito un processo nel corso del 2018, processo che l’avrebbe consacrato quale simbolo delle proteste del 2019. Insieme agli altri esponenti di Hong Kong Indigenous, ha condotto una battaglia contro i cinesi della madrepatria, commercianti e turisti, vittime anche di molestie da parte degli attivisti. Per Leung e i suoi compagni, i cinesi del continente erano simili a “locuste” che invadevano Hong Kong e portavano via ai cittadini dell’isola prodotti dalla qualità superiore a quelli disponibili nel resto della Cina, primo tra tutti il latte in polvere. Caso strano: la madre di Leung è nata nel continente e non ad Hong Kong. Ma parla cantonese, lingua ufficiale dell’isola, e vive lì da oltre 20 anni.
Hong Kong Indigenous vorrebbe l’indipendenza dalla Cina, una richiesta che trova il sostegno solo di una piccola parte dei cittadini, troppo anche per il movimento pro-democrazia che la considera irrealizzabile. Ora, dopo 5 mesi di braccio di ferro con Pechino, questa richiesta sembrerebbe a molti l’unica scappatoia per evitare l’autoritarismo di Pechino. Come spiega un articolo del The Atlantic, Leung avrebbe previsto tutto tre anni fa, quando, con la felpa azzurra e il dito indice puntato al cielo, incitava a ribellarsi alla Cina prospettando il divieto a indossare maschere dutante le proteste. La previsione si è realizzata ad inizio ottobre 2019 perché la governatrice di Hong Kong Carrie Lam ha vietato ai manifestanti di indossare maschere che coprissero il volto. Lam ha provato così a mettere un freno all’esplosione di rabbia cieca, ma anche di dissenso pacifico, che aveva preso il sopravvento sul Porto dei profumi. Lo slogan di Leung “Riprendiamoci Hong Kong, la rivoluzione dei nostri tempi” è diventato il mantra dei manifestanti, che l’hanno urlato e scritto con le bombolette sui muri della città. Dal carcere Leung ha scritto una lettera a chi protestava, invitando i destinatari non perdere la testa. Quando Leung è apparso a inizio ottobre per partecipare all’udienza di appello, erano centinaia le persone ad aspettarlo davanti al tribunale. La campagna di crowdfunding lanciata dal suo team di volontari ha raccolto 350 mila dollari di Hong Kong in soli 15 minuti.
Eppure, l’identità dei cittadini dell’isola, tornata alla Cina nel 1997, è un concetto che appare forgiato dalle circostanze e dalla storia ad uso politico. Come suggerisce lo studio Politicizing Tradition: The Identity of Indigenous Inhabitants in Hong Kong di Selina Ching Chan, “l’identità di Hong Kong è un chiaro esempio di politicizzazione dell’etnicità”. Un tempo gli abitanti di Hong Kong elevavano i costumi locali al rango di costumi nazionali per contrapporsi ai colonizatori britannici. Oggi, invece, il numero di persone che non si sente cinese ma “hongkonghese” sarebbe raddoppiato dallo scorso marzo.
Pubblicato su Il Mattino
Erminia Voccia
Giornalista professionista, campana, classe 1986, collabora con Il Mattino di Napoli. Laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli. Master in giornalismo e giornalismo radiotelevisivo presso Eidos di Roma. Appassionata di Asia.
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