Quante volte lo abbiamo commentato. La possibile svolta diplomatica della guerra in Siria, le intese di Ginevra, la diplomazia e le strette di mano. Per poi osservare il giorno dopo la rottura dei vari cessate-il-fuoco e il prosieguo delle ostilità. È storia degli ultimi sei anni di guerra. E questa volta, la visita del dittatore siriano Bashar Al Assad, volato a Sochi per incontrare il presidente russo Vladimir Putin, non appare molto diversa.
Quel che è diversa è la posizione di forza apparente che può vantare oggi il regime di Damasco, forte della sconfitta militare dello Stato Islamico e della riconquista di numerose città della Siria. Non a caso, le prima parole di Assad nei confronti del leader russo sono state un ringraziamento «per aver salvato lo Stato siriano».
Ma Vladimir Putin è consapevole del fatto che la guerra non è ancora vinta, perché la sconfitta del terrorismo «è ancora lunga prima di arrivare alla completa vittoria». Anche se, per quanto lo riguarda, Mosca ha già ottenuto tutti gli obiettivi che si era prefissa. Ha assicurato al suo paese uno sbocco al Mar Mediterraneo, occupando l’intera provincia costiera di Latakia, dove ha posto le sue basi militari. Ha impedito il rovesciamento di un governo amico come quello di Assad. E ha dimostrato al mondo come la sua potenza militare non tema avversari.
Il Congresso dei popoli della Siria
Il riposizionamento geopolitico di Mosca, insomma, è la vera notizia che emerge dall’incontro di Sochi, dove il presidente siriano è andato letteralmente a “baciare la pantofola” del suo salvatore russo. Il quale adesso può imporre a Damasco di accondiscendere alla proposta che il Cremlino medita da tempo: dar vita a un Congresso dei popoli della Siria, che rappresenti tutte le componenti etniche e religiose del paese, affinché insieme trovino una soluzione politica condivisa. Che passa inevitabilmente per una ricomposizione in senso federale dello Stato siriano, con autonomie garantite per i curdi e per le maggioranze sunnite.
Proprio per questo, prima di incontrare il 22 novembre i presidenti di Turchia e Iran, Recep Tayyip Erdogan e Hassan Rouhani, Vladimir Putin ha voluto ricevere Bashar Al Assad, per assicurarsi che il dittatore non si tiri indietro all’ultimo momento sulla proposta che andrà a fare a turchi e iraniani. Decollato con un aereo militare dall’aeroporto di Mezzeh nei pressi della capitale, il presidente siriano ha però risposto “sì” a ogni richiesta, secondo quanto è stato fatto trapelare.
Così, per il padrone di casa non resta che imporre all’alleato iraniano e alla controparte turca la lettura di una bozza del piano concepito a Mosca, che nei prossimi mesi potrebbe portare all’avvio dei lavori congressuali. Forse, ancor prima che tacciano definitivamente le armi. Ma, soprattutto, Putin deve fare una complicata telefonata alla Casa Bianca, dove lo attende l’unica vera incognita al suo piano, che risponde al nome di Donald J. Trump.
Che fine farà Bashar Al Assad?
Per quanto Mosca si sia intitolata la vittoria e la sopravvivenza del regime siriano, infatti, senza il supporto dei curdi – e dunque degli americani che li hanno supportati – Raqqa e l’est siriano non sarebbero stati espugnati così facilmente. Costringendo alla fuga lo Stato Islamico, Washington ha ipotecato un posto di tutto rispetto al tavolo negoziale. E perciò farà valere tutto il proprio peso nel momento in cui si dovrà prendere una delle decisioni politiche più scomode: rimuovere o meno il presidente Bashar Al Assad.
Putin lo vorrebbe a Damasco sino al termine della presidenza, che scade nel 2021, ma gli alleati di Trump non sono minimamente d’accordo. Del resto, secondo le forze arabo-sunnite, la causa scatenante della guerra è stata proprio la violenza usata da parte del suo governo contro la popolazione civile. Dunque, in teoria non ci sono margini di trattativa su questo punto. Inoltre, Trump desidera esibire uno scalpo di fronte al Congresso americano, per marcare le distanze dal suo predecessore Obama e dallo stesso presidente russo.
Quello su cui, invece, la maggior parte degli interlocutori di Mosca e di Washington sembra concordare, è lo scongiurare una spartizione della Siria in più parti tra loro indipendenti. Tutte le componenti etniche e religiose del paese, infatti, a cominciare dai rifugiati rimasti nella regione, sembrano desiderare soltanto di poter tornare a casa propria, entro confini sicuri.
Ma è altrettanto vero che, se non ci sarà un accordo pienamente condiviso in un eventuale Congresso dei popoli, le speranze russe resteranno a lungo su quel tavolo, mentre sul campo si rafforzeranno le premesse per un ulteriore inasprimento della guerra, con il terrorismo a farla ancora da padrona. Per ogni passo in avanti, c’è sempre chi ne vuole due indietro.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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