Putin per sempre

I cittadini russi hanno appoggiato le riforme costituzionali votando, con una maggioranza schiacciante, a favore del referendum che permette, tra le varie novità, al presidente Putin di restare al potere fino al 2036. Le riforme introdotte con il voto referendario consentono al capo del Cremlino di ricandidarsi di nuovo come presidente per altri due mandati, una possibilità che prima gli era esclusa. Putin, ex funzionario del Kgb ormai 67enne, è rimasto al potere in Russia negli ultimi 20 anni, ricoprendo la carica di primo ministro o di presidente. La manovra gli consente in teoria di governare fino all’età di 83 anni.

Con il 100% di schede scrutinate, 77,92% dei votanti ha appoggiato le modifiche alla Costituzione, secondo l’agenzia di stampa russa Sputnik che cita i dati della Commissione Elettorale Centrale (Cec). Solo poco più del 21,2% degli elettori ha votato contro. L’affluenza è stata quasi del 65% e le operazioni di voto si sono svolte nonostante il nuovo coronavirus. Ella Pamfilova, a capo della Commissione, ha affermato che il voto è stato trasparente e che i funzionari hanno fatto il possibile per garantirne l’integrità, riporta l’agenzia Reuters.

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Grazie alle modifiche alla Costituzione, Putin ha la strada spianata per restare alla guida del Paese anche dopo il 2024, anno in cui scadrà il suo attuale mandato presidenziale, il quarto in tutto e il secondo consecutivo. Putin, in base a quanto era previsto dalla Costituzione, non avrebbe potuto candidarsi nuovamente. Con gli emendamenti, invece, potrebbe provare a diventare ancora una volta primo ministro, ruolo già ricoperto per due volte.

Il membro dell’opposizione Alexei Navalny ha definito il voto una farsa illegittima e illegale, orchestrata per legalizzare la presidenza a vita di Putin. Molti osservatori hanno criticato il risultato elettorale e la campagna finalizzata a fare pressioni sugli elettori. «Non riconosceremo mai questo risultato», ha commentato Navalny in un video diretto ai suoi sostenitori. Secondo questa analisi, Putin aveva bisogno di un plebiscito e le novità introdotte dalle riforme erano solo un dettaglio. Le riforme, inoltre, erano già state approvate dal Parlamento. Semplificando molto, il referendum sarebbe stato dunque solo un modo per garantire al presidente Putin l’appoggio del popolo russo.

Cosi Antonio Badini descrive nel volume Leaders. I volti del potere mondiale, edito da Paesi Edizioni, la lunga marcia di Putin per conquistare il potere:

Non è frequente, per gli studiosi di affari internazionali, osservare come personaggi destinati a entrare nella Storia si affaccino al potere con cautela, quasi in punta di piedi. Uno di quei personaggi è certamente Vladimir Putin. Il quale nel 1999, allora capo autorevole dell’Fsb, erede del più noto servizio segreto Kgb, viene designato da Boris Eltsin quale suo successore e poi formalmente nominato nel 2000 presidente della Federazione Russa. Quella nomina di un uomo scarsamente noto al grande pubblico, fu accolta con sorpresa anche da parte di qualificati osservatori internazionali. Grande era, infatti, la diversità tra i due personaggi, tanto nella filosofia politica quanto nella concezione dell’identità russa.

Il predellino per salire sul treno della futura ascesa al potere, glielo fornì inconsapevolmente Yuri Andropov, futuro segretario generale del Pcus e presidente dell’Urss quando, nominato a capo del Kgb, decise di rinnovare i ranghi del vetusto apparato dei servizi di sicurezza sovietici. Nell’infornata delle forze fresche introdotte nel Kgb figurava proprio il giovane Vladimir Putin, da poco laureatosi brillantemente. Gli uomini vicini ad Andropov inclusero Putin nel ristretto organico dei futuri dirigenti che, propriamente addestrati, erano destinati a impossessarsi delle più aggiornate tecniche per lo studio dei comportamenti della gente e dei processi mentali che inducono a determinate scelte di vita, inclusa la sfera degli ideali e della fedeltà alle istituzioni nazionali. Vladimir rimase nel Kgb fino al 1991, per poi compiere una serie di esperienze nell’amministrazione pubblica, dove si distinse sempre di più come funzionario abile a fornire ai propri capi analisi di situazioni, proposte di misure e politiche miranti a ottenere gli obiettivi prefissati. Particolarmente arricchenti per lui furono le esperienze compiute nell’allora Repubblica Democratica Tedesca (la Rdt, ex Germania orientale), dove apprese le arti del controspionaggio e le analisi di tendenza, incluse quelle economiche e sociologiche, che si dimostrarono vincenti per indurre Eltsin a nominarlo nel 1998 a capo dell’Fsb, appena creato. Posizione che, in pratica, lo vedeva trasformato in consigliere speciale per le situazioni complesse, quelle cioè che avrebbero potuto mettere a rischio la stabilità socio-economica del Paese.