Nato sulle rovine di un impero maldestro, il progetto di governo di Putin è tutto in difensiva: le parole chiave del 2000 come libertà, mobilità, equità, liquidità, la Rete, il multi e il micro, sono tutte aborrite. È un mondo che rincorre l’autorità e la solidità, dove gli uomini sono uomini e le donne sono donne, dove ogni cosa ha il suo posto, e il capo ha ragione anche quando ha torto. Nella Russia di Putin gli psicologi del governo inseriscono tra i criteri del reato di propaganda gay l’incitamento ai figli «a mancare di rispetto ai genitori». Non a caso Putin usò come uno dei primi mantra del suo regno la «verticale del potere».
È la cosiddetta «Cultura 2», teorizzata da Vladimir Paperny nel suo brillante saggio Architecture in the age of Stalin che, partendo dall’architettura ed espandendosi poi a ogni sfera, dal linguaggio alla geografia, descrive l’eterno antagonismo russo tra l’«orizzontalità» e la «verticalità», che offre a ciascuno un posto nella gerarchia e la possibilità, nel proprio piccolo, di essere la punta di una piramide di potere che ha sotto figli, di- pendenti, allievi, clienti, nel peggiore dei casi il gatto.
Putin si è ispirato direttamente a Nicola I nel proporre all’Europa un’alleanza conservatrice contro il caos dell’individualismo liberale. Non è casuale che una delle frasi più frequenti dei suoi elettori è «con Putin siamo al sicuro», anche se spesso faticano a spiegare da quali minacce si sentano protetti. Un conservatore post traumatico, un presidente per caso che, insieme al suo popolo, cerca di ammortizzare lo shock della caduta dell’impero: una missione che in altre mani avrebbe potuto anche significare una transizione pilotata verso un modello europeo. Dal quale Putin era stato senz’altro attratto, se non altro per la palese superiorità di offerta economica e sociale. E dal quale – di nuovo in sintonia con il suo elettorato – si è sentito respinto. O meglio, si è trovato incompatibile come un software non aggiornato.
Per il politologo Stanislav Belkovsky, che dopo essere stato per anni uno degli spin doctor di Putin ora lo indaga più con i metodi della psicoanalisi che delle scienze sociali, il presidente è vittima dei suoi complessi di ragazzino delle periferie di Leningrado, un’infanzia che lui stesso aveva raccontato come dominata dai gopnik, i balordi delle gang di quartiere. Un mondo nel quale cedere equivaleva a manifestare debolezza, e la paura veniva equiparata a un segno di rispetto.
Il chip del compromesso, in effetti, non pare essere stato montato nella testa di Putin. Ogni volta che si è trattato di scegliere tra il dialogo e la prevaricazione, l’apparentemente timido e controllato presidente ha optato per la seconda. Lo fece con la Cecenia. Lo fece al bivio cruciale del 2003, quando invece di accettare di co-gestire il potere con opposizioni, oligarchi e regioni, scelse di incarcerare Mikhail Khodorkovsky, di bandire i partiti liberali dalla Duma e di proibire le elezioni dei governatori. Lo fece con i dissidenti nelle piazze del 2012, rifiutandosi perfino di incontrarli. Lo fece con l’Ucraina che cacciò il suo candidato Viktor Yanukovich, un altro figlio delle periferie sottoproletarie sovietiche. Lo ha fatto ancora con Alexey Navalny, trattato molto più duramente di quanto Brezhnev fece con Sakharov.
Tratto dal libro
Navalny contro Putin
di Anna Zafesova
Redazione
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