Il 25 giugno, l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani festeggerà il quinto anniversario della sua ascesa al trono. Il sostegno dei circa trecentomila cittadini qatarioti alla casa regnate degli Al Thani è aumentato nel corso dell’ultimo anno, in seguito all’interruzione di ogni rapporto diplomatico ed economico con l’emirato, annunciata il 5 giugno 2017 da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto.
Tale decisione è stata giustificata con la volontà di sanzionare Doha per il sostegno accordato a vari gruppi jihadisti. In realtà, l’intento è di soffocare le ambizioni politiche ed economiche del Qatar, che non è disposto ad accettare né una posizione secondaria rispetto alle pretese egemoniche di Riad e Abu Dhabi nella regione né la loro netta contrapposizione all’Iran.
A poco più di un anno dall’inizio del blocco, non ci sono indicatori che lascino prevedere una fine imminente della crisi nel Golfo. L’obiettivo di strangolare il Qatar sul piano economico e di isolarlo politicamente, infatti, non è stato raggiunto. L’opzione militare, che pure era stata considerata da Riad come una possibilità per chiudere la contesa a proprio vantaggio, è del tutto impraticabile. Tale soluzione non è avallata da Washington e potrebbe destabilizzare ulteriormente la regione con il coinvolgimento di altre potenze come la Turchia, che nel 2015 ha costruito la sua prima base aerea all’estero proprio in Qatar. Ankara, tra l’altro, fin dalle prime rivolte arabe del 2011, è accomunata a Doha anche sul piano ideologico, sostenendo vari gruppi radicali sunniti e la Fratellanza musulmana in Egitto, prima del ritorno al potere dei militari. Per ora, dunque, la chiusura della frontiera terrestre e il divieto per aerei e navi in provenienza e in direzione del Qatar di utilizzare lo spazio aereo e marittimo dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati permane.
La capacità di resistenza degli Al Thani è stata rafforzata anche dall’atteggiamento degli Stati Uniti, che hanno appoggiato l’Arabia Saudita e gli EAU solo nella fase iniziale. Già nei primi giorni della crisi l’allora segretario di Stato Rex Tillerson aveva sottolineato l’importanza strategica del Qatar, dove gli Stati Uniti mantengono la base di Al Ubaid con diecimila soldati e il Comando Centrale responsabile delle operazioni in Medio Oriente. Il presidente Donald Trump, che aveva accusato Doha di costituire una minaccia e di destabilizzare la regione, ha poi speso parole di apprezzamento per lo Stato del Golfo in occasione della visita a Washington dell’emiro Tamim Al Thani lo scorso mese di aprile, quando sono stati firmati anche accordi per la vendita di armamenti all’emirato.
Le conseguenze economiche non si sono dimostrate tali da indurre Tamim Al Thani a piegarsi alle richieste di Riad e di Abu Dhabi. Il blocco ha comportato perdite sul piano commerciale, finanziario e turistico ma non ha compromesso la crescita complessiva del Qatar, che nel 2017 si è attestata al 2,1 %, in leggero calo rispetto al 2,2 % del 2016. Per l’anno in corso, la tendenza all’aumento dei prezzi dei prodotti energetici a causa delle tensioni perduranti in altri Paesi produttori come il Venezuela e la Libia potrebbe persino favorire la resistenza di Doha.
Le difficoltà negli approvvigionamenti alimentari e nell’acquisto di metalli e materiali da costruzione, particolarmente importanti per la realizzazione delle infrastrutture necessarie all’organizzazione dei mondiali di calcio del 2022, sono state in parte aggirate stimolando la produzione interna o ricorrendo a fornitori diversi dai vicini arabi. Lo scorso mese di ottobre il Qatar ha annunciato la nascita di un comitato congiunto con l’Iran sugli scambi commerciali al fine di rendere più efficienti le rotte aeree e marittime tra i due Paesi. La decisione ha destato preoccupazione a Washington, già allarmata ad agosto dal ripristino dei rapporti diplomatici tra Doha e Teheran interrotti come ritorsione per l’attacco all’ambasciata saudita in Iran dopo l’impiccagione del leader sciita Al Nimr, detenuto a Riad. A gennaio il Qatar ha siglato un memorandum d’intesa con l’Oman per l’utilizzo di alcuni porti commerciali del Sultanato per mantenere aperte diverse rotte marittime in cambio di investimenti infrastrutturali. L’obiettivo di Doha è garantire ai suoi clienti, soprattutto in Estremo Oriente, le forniture di gas naturale liquefatto, di cui è il maggior esportatore a livello mondiale.
Sul piano finanziario, nei primi dieci mesi della crisi gli investimenti esteri e i depositi privati sono diminuiti di circa 40 miliardi di dollari e le riserve di valuta estera si sono ridotte in maniera apprezzabile, ma il calo è stato bilanciato da iniezioni di liquidità da parte della banca centrale e del fondo sovrano, che hanno impedito la svalutazione del dinaro qatariota e fiammate inflazionistiche.
I dati economici, dunque, sono un indicatore di come il tentativo promosso dall’erede al trono saudita Muhammad bin Salman e dalla casa regnante di Abu Dhabi Al Nahyan di piegare gli Al Thani all’obbedienza non abbia prodotto i risultati pianificati. Nonostante la disponibilità del Qatar a discutere con i suoi vicini, le posizioni si sono cristallizzate e le possibilità di una fine della crisi nel breve periodo appaiono scarse. I principali attori internazionali non hanno interesse a muoversi da una posizione di equidistanza dai contendenti per non arrecare pregiudizio ai loro interessi politici ed economici. Solo gli Stati Uniti potrebbero essere spinti a intervenire per timore che Doha si avvicini sempre di più a Teheran, ma i buoni uffici di Trump sono sempre stati respinti da Riad. Solo un compromesso voluto dagli stessi Paesi del Golfo, momentaneamente nemici, potrà mettere fine alla crisi. Quando Riad e Abu Dhabi capiranno di non potersi permettere una domestica qatariota e Doha si renderà conto di non essere un libero battitore nel delicato scacchiere mediorientale.
di Giuseppe Manna
Redazione
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