Biden sceglie Kamala Harris, la sua «safe choice»

Il perseguimento di politiche identitarie da parte dell’establishment della politica estera occidentale sta portando a una sorta di analfabetismo geopolitico, al punto che oggi le rivalità a livello globale si vanno intrecciando con i conflitti culturali e, di converso, i conflitti si esprimono col linguaggio della guerra culturale. Questo il senso del discorso del professor Frank Furedi, direttore del think tank MCC Brussels, alla conferenza “Culture war goes global” (Le guerre culturali diventano globali) tenutasi lo scorso 20 novembre nella cornice del The Hotel di Bruxelles. Secondo Furedi oggi le dispute culturali – ancora irrisolte – che imperversano all’interno delle società occidentali vengono in un certo senso “esportate” in altre parti del mondo. È così che le politiche identitarie celebrate dalle élite culturali arrivano a informare di sé una serie cospicua di iniziative di politica estera. I temi dominanti delle guerre culturali nell’anglosfera vengono poi continuamente convogliati nel resto del mondo con varie iniziative diplomatiche e organizzazioni internazionali.

Un rapporto recente pubblicato dal Consiglio d’Europa intitolato The Gender Dimension Of Foreign Policy (La dimensione di genere della politica estera) si concentra precisamente sulla definizione di “priorità di genere e di inclusione in risposta alle crisi internazionali”. Il documento ufficiale porta avanti la necessità di “adottare un approccio intersezionale e inclusivo, con una rappresentanza rilevante di donne e persone provenienti da diversi contesti”. E si vanta che “la promozione di questo approccio è al centro delle politiche estere femministe”.

Anche l’amministrazione USA uscente Biden-Harris è stata simpatetica riguardo agli obiettivi perseguiti da una politica estera autodefinitasi “femminista”. Il progetto di globalizzare le ossessioni identitarie usando i canali diplomatici e le istituzioni si presenta un pò come la versione attualizzata della retorica wilsoniana seguita alla Prima guerra mondiale coi suoi ideali tesi a “rendere il mondo sicuro per la democrazia”. A differenza del presidente Wilson, Biden ha però voluto rendere il mondo sicuro per la cultura LGBTQI+. E si è vantato dell’impegno di Washington teso a “guidare con la forza del nostro esempio la causa della promozione dei diritti umani delle persone LGBTQI+ nel mondo”. Per il Dipartimento di Stato USA la promozione dei diritti umani, intesi in senso ampio anche per la comunità LGBTQI+, rimane un elemento centrale della politica estera. Ecco perché le ambasciate americane in tutto il mondo sono in prima linea nell’incoraggiare le iniziative LGBTQI+ locali e spesso la bandiera arcobaleno spicca in risalto ancor meglio di quella a stelle e strisce.

Per Furedi il presidente Obama in particolare ha continuamente promosso il suo orientamento geopolitico attraverso i temi della guerra culturale sul piano interno. Ha gestito il rapporto con la Russia usando il prisma della guerra culturale americana. Il suo approccio è stato ben illustrato in un discorso alla Conferenza dei Giovani d’Europa a Berlino risalente ormai a più di dieci anni fa (marzo 2014). All’epoca Obama collegava la sua critica all’occupazione della Crimea con l’opposizione a certi valori culturali visti come “arretrati” negli Stati Uniti. Obama celebrava la politica dell’identità e del permissivismo e denunciava la “visione più vecchia e tradizionale del potere” riferendosi ai russi. Concludeva dicendo che “invece di prendere di mira i nostri fratelli e sorelle gay e lesbiche”, come fa la Russia, “possiamo usare le nostre leggi per proteggere i loro diritti”. Chiunque abbia ascoltato allora il suo discorso avrebbe potuto immaginare che la sua preoccupazione fosse tanto per i deplorevoli populisti anti-woke negli Stati Uniti quanto per l’occupazione della Crimea. Obama colse l’occasione del discorso sulla Crimea per elogiare il “progetto europeo” federalista e i principi dell’Unione Europea.

È evidente che l’oligarchia che dirige l’UE si è adeguata al manuale da campo di Obama. Ad esempio, la Commissione ha adottato la politica del gender mainstream e cerca continuamente di imporre gli ideali LGBTQ+ agli Stati membri. Essa inoltre usa strumenti quali la coercizione e il ricatto finanziario per imporre le proprie opinioni agli Stati membri recalcitranti. Capita poi che il perseguimento di valori culturali globalizzanti appaia come una caricatura degli intenti, idealisti in origine. Prendiamo il caso di Sneha Nair, un’esperta recentemente assunta dall’Amministrazione per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, l’organismo incaricato di mantenere il più grande arsenale nucleare del mondo. Nel giugno 2023, prima di essere assunta dall’amministrazione Biden, la Nair risultava coautrice di un lungo saggio sul Bulletin of the Atomic Scientists intitolato “Rendere più queer le armi nucleari: come l’inclusione LGBTQ+ rafforza la sicurezza e ridisegna il disarmo. Nair è una sostenitrice intransigente dell’uso della “teoria queer” nello sviluppo della politica statunitense in materia di armi nucleari. Secondo Nair e il suo coautore, “diversità e inclusione sono particolarmente importanti” per la politica nucleare. Nel  saggio che le ha dato visibilità la Nair afferma che “la discriminazione contro le persone queer” può “minare la sicurezza nucleare” e aumentare il rischio di una guerra nucleare. Attacca infine la comunità dei Paesi dotati di armi nucleari per essere in gran parte “eteronormativa”. Ci si può preoccupare quando figure come Sneha Nair svolgono un ruolo attivo nella comunità americana per il nucleare?

Il fatto, ha concluso Furedi, è che agli occhi delle élite culturali e tecniche occidentali, i loro avversari stranieri rappresentano i valori e gli atteggiamenti di quei cittadini del loro stesso Paese che essi deplorano come xenofobi populisti e che si trovano dalla parte sbagliata della storia. Queste élite hanno una visione globalista che in primo luogo si oppone all’ideale della sovranità e dell’autodeterminazione. Molti di questa élite sono determinati a imporre al resto del mondo un marchio americano di politica identitaria e di valori “woke”. Questo  porta le élite a interpretare i principali eventi geopolitici attraverso il prisma delle guerre culturali. E così si chiude il cerchio.

A differenza dei loro nemici globali, le élite occidentali si sentono politicamente e culturalmente estranee alle rispettive istituzioni nazionali di provenienza. Questo spesso le rende incoerenti nel perseguimento dei propri interessi nazionali, persino dubbiose su quel che fanno. Eppure, ha tenuto a notare Furedi, la de-nazionalizzazione delle élite non è semplicemente guidata dalla globalizzazione. Politicamente e culturalmente i membri dell’élite  si sentono estranei alle rispettive istituzioni e affiliazioni nazionali.

È dagli anni Novanta, da quando si instaurò precocemente una nostalgia per la Vecchia Guerra Fredda, che la distanza psichica tra la prospettiva dell’élite e la sensibilità nazionale si è venuta ampliando. Attratti dal multiculturalismo e dalla sacralizzazione della diversità, i membri dell’élite hanno investito parecchio nella promozione delle varie politiche identitarie. E questo sentimento è stato sistematicamente promosso dalla dottrina del Great Reset portata sulle baionette dal World Economic Forum. Il Great Reset prevedeva addirittura un mondo post-pandemia in cui le politiche identitarie LGBTQ+ avrebbero sostituito la vecchia normalità: “l’inclusione LGBT+ è il segreto del successo post-pandemia delle città” recita il documento ufficiale del Forum.

L’unica identità che l’élite globalista disprezza è quella della propria nazione. Coloro che sono incaricati di condurre gli affari internazionali e la politica estera spesso condividono la visione culturale dei loro compagni anti-sovranisti. E siccome la loro sensibilità è più in sintonia con il transnazionale che con il nazionale (per non dire del livello regionale) il loro comportamento come attori geopolitici finisce per essere imprevedibile, confuso. La tragica conseguenza degli interventi umanitari (riusciti a metà) in Siria e in Afghanistan è lì a parlarci di un caos creato da una diplomazia che ha difficoltà a distinguere tra retorica culturale, transnazionale e interesse concreto, nazionale.

È così, ha spiegato Furedi con piglio materialista, che la diplomazia è stata subordinata ai dettami dell’ostentazione di virtù (rigorosamente di parte). E paradossalmente i diplomatici occidentali sono tornati dritti dritti alla vecchia, stantia postura neocoloniale con le sue lezioncine impartite alle altre nazioni in fatto di valori culturali. Quando la diplomazia e la geopolitica si intrecciano con la politica culturale e le affiliazioni identitarie, il risultato è sempre imprevedibile.

La lezione di Furedi è che i conflitti in corso oggi difficilmente possono trovare delle soluzioni pragmatiche, mentre semmai tendono a sfuggire al controllo degli apprendisti stregoni che li hanno innescati: è per questo che serve tornare alla pratica della geopolitica, dichiarando apertamente gli interessi nazionali. Questa sembra essere la migliore speranza per evitare inutili conflitti. Ma per fare questo, ha concluso cinicamente, c’è bisogno di leader patriottici.