La Belt and Road Initiative (BRI) diviene per la prima volta un progetto pubblico nel settembre 2013, durante un discorso di Xi Jinping all’Università Nazarbaev di Astana, la capitale del Kazakhistan. Poi ci sarà la ripetizione del concetto nel Parlamento indonesiano il mese successivo.
La logica geopolitica dell’operazione in fondo è semplice: Pechino mantiene da secoli una grande e inevitabile asimmetria tra le sviluppatissime aree costiere e le sue vaste lande interne, che sono o agricole o desertiche. Da dove, peraltro, sono sempre arrivati tutti i suoi nemici, dai mongoli al “nemico del nord”, ovvero i russi. E la Cina vuole, quindi, da un lato mettere a frutto queste aree, dall’altro securizzarle.
Poi la BRI è l’inevitabile risposta cinese all’iniziativa Usa del pivot to Asia, ovvero quella politica di accerchiamento-avvicinamento-chiusura strategica alla Cina e all’Asia Centrale che hanno caratterizzato la presidenza di Barack Obama.
A questo punto per i cinesi cambia la linea di fondo della politica estera: dal “mantenere un basso profilo” di Deng Xiaoping, l’iniziatore delle Quattro Modernizzazioni, allo stesso Xi Jinping che oggi pone, come slogan per gli affari esteri cinesi, il criterio di “lottare per il successo”. Xi, all’epoca della sua formulazione (e la BRI è un concetto in continua evoluzione) parlò di una “cintura economica intorno alla Via della Seta” al fine di innescare lo sviluppo dell’Asia Centrale”. Poi, il leader di Pechino parlò anche di una “Via della Seta marittima del 21° secolo” che avrebbe riguardato in particolare l’Oceania, l’Asia del Sud-Est e l’Africa del Nord.
Quindi oggi, dopo la definizione ufficiale della BRI (settembre 2015) da parte del governo di Pechino, abbiamo a che fare con due ipotesi: o la Belt and Road è soprattutto la nuova strategia globale della Cina, che garantisce a lungo il surplus commerciale di Pechino e apre sempre nuovi mercati, per soddisfare la sovrapproduzione interna; oppure, la BRI può essere, come sostengono alcuni dirigenti cinesi, una nuova forma di globalizzazione per creare una “nuova umanità”, come disse Xi Jinping a Davos nel 2018, anche sulla base delle espressioni usate in quell’occasione da Emmanuel Macron.
La globalizzazione multipolare invece della globalizzazione attuale che è, nei fatti, una americanizzazione.
Certo, qui si tratta, con la BRI, di 4 trilioni di investimenti previsti e promessi in 65 Paesi, con il 70% della popolazione mondiale interessata, il 55% del Pil mondiale e il 75% delle riserve energetiche mondiali.
Vignetta del giornale di Hong Kong South China Morning Post
Sarebbe però ingenuo ridicolizzare il gigantismo dell’operazione: certo, la Cina ha una popolazione che invecchia, gli Usa hanno poi fortissime basi per contrastare operativamente la BRI; però la Cina ha una posizione geopolitica eccezionale e, malgrado tutto, il progetto BRI andrà avanti. Anche in mancanza di investimenti di pari livello e diffusione che gli Usa non vogliono o non possono concedere. Ma non nascondiamoci dietro le parole: la BRI nasce per costruire un primato militare e geopolitico cinese contro gli Usa. E questo, a Washington, lo sanno benissimo.
Su questo tema è centrale il rapporto tra Pechino e Teheran, che diventerà un potente alleato contro i futuri attacchi Usa verso le linee marittime commerciali cinesi (e quelle terrestri verso l’Asia Centrale) che collegano il Mediterraneo con il Golfo Persico e gli oceani orientali. Ovvero, l’inizio di tutta la BRI. Gli Usa stanno inoltre giocando, entro certi limiti, la carta dell’India per contrastare la Cina, ma gli americani hanno anche tentato, da poco tempo, di costruire una alleanza, che imita la BRI, tra Myanmar, Afghanistan, Sri Lanka e Pakistan, al fine evidente di accerchiare Pechino.
Quindi è certo che gli Usa faranno pagare cara l’entrata del nostro Paese nella BRI, indipendentemente dall’entità dei trattati commerciali e dalla loro natura. E noi non abbiamo previsto in tempo le vie di fuga da questa stretta degli Stati Uniti. Certo, un governo di esperti (e non di dilettanti) avrebbe prima di tutto sondato gli americani e gli altri paesi UE, con attenzione ai loro desiderata e una pronta capacità di replica, ma questi sono dei ragazzotti al potere, un pò come nella commedia surrealista di Vitrac, Victor, ou les enfants au pouvoir.
È comunque vero che per l’Italia (come per la UE) il problema è trovare investimenti esteri, che mancano, pur cercando di limitare al massimo l’influenza cinese nel Vecchio Continente.
Macron, anche lui, ha espresso l’idea di un coordinamento europeo dei rapporti tra BRI, Pechino e paesi UE, mentre l’inaspettata visita di Xi Jinping nel Principato di Monaco sancisce l’importanza del piccolo stato, a metà tra Genova e Marsiglia. Due città che saranno due grandi porti nella Via della Seta.
Ma, se il presidente Trump ha spesso mostrato insofferenza per gli alleati europei della NATO, sia per gli accessi americani ai mercati UE sia per la condivisione del costo militare dell’Alleanza, è però vero che oggi Bruxelles ha il massimo interesse a rafforzare l’Alleanza Atlantica. Rimanere da soli con i cinesi in casa, che hanno una strategia militare seria e adulta, non è una bella prospettiva.
E se Bruxelles potesse, proprio grazie alla BRI, diventare un mediatore essenziale tra Washington e Pechino? Si, potrebbe ma, per quel che conosciamo la burocrazia europea, non lo crediamo possibile. A breve termine prevedo comunque un ulteriore frazionamento geopolitico della UE. E una serie di tensioni interne al sistema dell’Unione, alle quali non sarebbero estranei né gli Usa né la Cina.
L’Impero di Mezzo è comunque molto importante per l’Italia, anche dal punto di vista economico, l’unico che i nostri “bambini al potere” riescano a vedere. Il 3% del totale del nostro export è andato, nel 2018, e per 13,7 miliardi di euro, in Cina, che si colloca subito dopo la UE (55%) gli Usa (9,1%) e la Svizzera (4,6%). Per le importazioni da altri Paesi in Italia, la Cina è seconda solo alla UE, con il 7,1% del totale dell’import italiano del 2018, ovvero 30,78 miliardi di euro. L’Italia, in UE, è il terzo importatore dalla Cina, dopo la Germania e il Regno Unito, e quarto esportatore dopo Germania, Regno Unito e Francia.
Sul piano delle infrastrutture, che sono l’asse geopolitico della BRI, già dal 2016 la Cina si è assicurata, con il 49,9% delle quote, il terminal per container di Vado Ligure, dove sta costruendo una piattaforma che sarà operativa alla fine di quest’anno. Per Genova e Savona, vi è l’interesse, forte, del Porto di Qindao e la collaborazione operativa della Chinese Comminications Construction Company CCCC. Trieste fa già parte dell’accordo Trihub, tra Cina, Italia e UE. La CCCC spenderà poi ben 13 miliardi di euro per la costruzione di una banchina per alti fondali nel porto di Venezia. Quando arrivavano i nuovi ambasciatori della Cina Popolare, negli anni passati, prima di venire a Roma si fermavano sempre a Venezia, per onorare la memoria del loro amico Marco Polo. I simboli fanno spesso la politica.
Nel 2018, la China Merchant Group ha investito 10 milioni di euro nel porto di Ravenna, per farne il polo dell’ingegneria navale. La Cina possiede già non trascurabili quote azionarie di FCA, Telecom Italia, Enel, Generali, Ansaldo Energia e CDP Reti. Gli Investimenti Diretti Esteri dalla Cina sono, in Italia, i terzi nella UE, per un valore di 15,3 miliardi tra il 2000 e il 2018. Quindi, se da una parte vi è la possibilità di un accesso preferenziale dell’Italia ai mercati cinesi, vi è però il problema della loro storica opacità operativa. Pechino ha però approvato una legge, che sarà operativa nel 2020, che impone l’eguaglianza di trattamento tra investitori cinesi e quelli stranieri, sul mercato dell’Impero di Mezzo.
Rischi per l’Italia? Soprattutto rimanere a terra per quel che riguarda le informazioni strategiche Usa. E pensare che ci abbiamo fatto una guerra, per essere collegati alle reti intel Usa e UK… Poi c’è la tutela delle tecnologie italiane che i cinesi comprano e in cui occorrerà ancora stare attenti alle modalità di finanziamento. E dovremo tutelare, anche con il supporto di altri Paesi amici (Israele?) le tecnologie 5G, che saranno essenziali per il prossimo ciclo di sviluppo tecnologico.
In Italia servirebbero: una intelligence “cattiva”; una classe politica capace di leggere rapidamente i segnali deboli, ma importanti, che vengono da ogni parte; una politica estera virile e sapiente. Non abbiamo nulla di queste tre cose.
Qualsiasi fesso può correre ai ripari, ma solo lo statista sapiente opera prima del pericolo. Lo dice anche uno dei 36 Stratagemmi dell’Arte della Guerra cinese: “Attraversa il mare senza che il cielo lo sappia”.
Marco Giaconi
Laurea in Filosofia moderna e contemporanea presso l’Università di Pisa. Dal 1992 in è prima direttore e poi direttore di ricerca presso il Ce.Mi.S.S. (Centro Militare di Studi Strategici). Nel 2000 è Consigliere del Ministro della Difesa Antonio Martino. Dal 2003 in poi è Consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Autore di numerosi saggi.
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