«Oggi, a un quarto di secolo dai fatti, è il momento adeguato per chiudere un capitolo di storia nel quale un piccolo paese nel cuore dell’Africa subequatoriale è diventato una lezione per il mondo intero». A dirlo è Silvana Arbia, che quei fatti li conosce bene. Dal 1999 al 2008 è stata impegnata presso il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda (TPIR) nella persecuzione dei responsabili del genocidio del 1994. E a Babilon commenta, 25 anni dopo, cosa ha significato quella strage per il paese e per quella parte di Africa poiché «solo la conoscenza e la memoria possono impedire che tali episodi tornino a verificarsi».
Per sottolineare l’immobilismo della comunità internazionale nei giorni del genocidio, Arbia ha pubblicato Mentre il mondo stava a guardare (Mondadori, 2011) in cui ripercorre la sua esperienza al TPIR prima da procuratore senior e poi da chief of prosecution. «In Ruanda ho compreso – racconta – che il più cinico piano di distruzione di massa non riuscirebbe senza il coinvolgimento della popolazione. I media e le autorità trasformarono pacifici cittadini in feroci esecutori armati di machete e bastoni chiodati». Il riferimento è a Radio Mille Colline e a giornali come Kangura, i quali furono i megafoni della propaganda violenta nei giorni dei massacri. Anche se, in tutto il mondo, «alcuni politici preferiscono ancora oggi istigare cinicamente la popolazione a eliminare fisicamente o moralmente i presunti nemici».
Il lavoro di Arbia in Ruanda è mastodontico. «Era come svuotare il mare», dice. Si occupa di 22 procedimenti. Tra questi quello al comandante Tharcisse Muvunyi, colpevole di istigazione diretta e pubblica al genocidio; quello ad Athanase Seromba, sacerdote congolese rifugiatosi a Firenze, che aveva permesso l’uccisione di 1500 persone nella parrocchia di Nyange.
Sono solo alcuni esempi delle stragi a danno dell’etnia tutsi e degli hutu moderati che sconvolgono il Ruanda a partire dall’attentato che il 6 aprile ha colpito l’aereo del Presidente Juvénal Habyarimana fino all’entrata a Kigali delle milizie tutsi del Fronte Patriotico Ruandese (FPR). Paul Kagame, a capo dell’FPR, governa da allora con percentuali bulgare (nel 2017 è stato rieletto con il 99 per cento) un Paese che sta conoscendo un’importante crescita economica. Passi avanti che conferma anche Arbia: «Sono stati riformati il sistema burocratico e quello giurisdizionale; è stata abolita la pena di morte; sono stati cancellati i residui retaggi del colonialismo: la lingua usata ufficialmente è l’inglese, che ha sostituito il francese e nei documenti di identità dei cittadini non vi è più la menzione dell’etnia, introdotta dai belgi». La dominazione occidentale – prima tedesca, poi belga – contribuì infatti a dividere le componenti etniche ruandesi fino all’esplosione delle violenze. «I conti tra l’Africa e l’Occidente – spiega Arbia – sono e rimarranno sempre aperti finché una vera partnership non sarà realizzata. L’aver messo a disposizione informazioni segretate sul genocidio è un atto meritevole da parte della Francia, ma non sufficiente a costruire relazioni su un modello di partenariato e non di dominio. Il coinvolgimento di grandi potenze nelle crisi africane deve essere conosciuto integralmente e i responsabili ancora impuniti messi a disposizione della giustizia. Anche sul piano economico l’Unione Europea ha perso troppo tempo: non è competitiva rispetto alla Cina e all’India in Africa».
In definitiva il Ruanda, aggiunge Arbia, «è sotto controllo. Le vittime sono ormai riconosciute come tali e non colpevolizzate come avveniva nei casi violenze sessuali. Le interazioni con il TPIR hanno giovato a rafforzare capacità professionali negli ambienti giurisdizionale e forense. Ma in Burundi, nella regione del Kivu (nella Repubblica Democratica del Congo, ndr) e in altri paesi confinanti la guerra non ha fine. Il ruolo politico e militare del Ruanda dovrebbe tener conto del pesante costo del conflitto interno del 1994 e farsi leader di processi di pace nella regione».
L’impegno di Silvana Arbia presso il TPIR è scaduto nel febbraio 2008. Da allora è diventata registar, capo della cancelleria, presso la CPI all’Aia. Una carriera ai massimi livelli che non ha mai cancellato i ricordi del Ruanda. Su tutti quello di una bambina, incontrata a Nyumba, un’orfana tutsi superstite del massacro che aveva sterminato la sua famiglia. Voleva tornare a scuola, diceva, a leggere e a imparare. «Penso costantemente a quella bambina – confida Arbia – mi trasmise la forza di continuare il mio lavoro in un momento di grande sconforto. Fu come una promessa: fare tutto il possibile per darle un futuro migliore. Di vittime innocenti e indifese ne incontrai molte altre. Alcune divennero testimoni. Oggi sono riconosciute in quali titolari di diritti e non vengono stigmatizzate né rifiutate dalla società. Fu un lavoro complicato, difficile, rischioso ma, ritengo, compiuto».
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