Il generale Sergei Kikot torna a casa. Esperto di guerra batteriologica ed epidemie, l’alto ufficiale è il comandante della missione “Dalla Russia con amore”: un centinaio di militari equipaggiati di tutto ciò che serviva per contrastare l’offensiva del virus nella bergamasca. Una missione certamente umanitaria e in egual misura di propaganda.
Conquistata una certa notorietà per aver negato contro l’evidenza, l’uso di armi chimiche da parte del regime siriano contro il suo stesso popolo, il generale Kikot avrebbe dovuto proseguire la missione a tempo indeterminato. Le pressioni degli alleati occidentali e dei nostri vertici militari, servizi compresi, hanno convinto il governo italiano e russo a chiudere di comune accordo “Dalla Russia con amore”. Se nelle loro interviste il premier Conte e il ministro degli Esteri Di Maio hanno ripetutamente precisato l’ovvio – che la solidarietà cinese e russa non modificava la nostra collocazione internazionale – così ovvia la nostra fedeltà geopolitica non doveva essere: non per gli americani né per la Nato. E nemmeno per cinesi e russi che ci hanno provato, dal loro punto di vista legittimamente, in un paese nel quale i 5Stelle avevano mostrato grande simpatia per i primi e la Lega per i secondi.
Se pure importante per la sua forza industriale e commerciale, l’Italia è solo una tessera del mosaico geopolitico in costruzione. L’opera è ancora incerta nei suoi dettagli: dipende da dove, quanto e quanto a lungo il virus continuerà a mordere; da quali danni farà la grande crisi economica, in quali paesi e quanto profondi.
Constatando che questo è una specie di dopoguerra, lo storico Timoty Garton Ash si chiede sul Guardian se sarà simile a quello del secondo conflitto mondiale, con la vittoria delle democrazie e la crescita sociale; o del primo, con l’avvento di nazionalismi e dittature. Almeno all’inizio, il quadro che ne uscirà non sarà così diverso da quello che conoscevamo prima del virus. Le grandi potenze restano tre: Stati Uniti, Russia e Cina. Ma che rimangano in questo ordine di potenza, è opinabile.
Approfittando della crisi d’identità degli Stati Uniti, alla fine del 2019 la Russia di Vladimir Putin sembrava la più dinamica nell’occupare i vuoti lasciati dall’America. Le truppe regolari o le milizie mandate sul campo a combattere in Siria, Libia o Ucraina, non ne limitavano l’elasticità e il pragmatismo diplomatico. A Washington governava l’uomo che la Russia aveva contribuito a far eleggere con una mirabile operazione d’intelligence e inganno. Aprile avrebbe dovuto essere il mese del trionfo con un referendum dal risultato scontato che avrebbe dato a Putin il potere a vita.
In cinquanta giorni il Covid-19 ha cambiato la scena ma alla fine ha solo svelato le debolezze già esistenti di una superpotenza nucleare con un’economia più piccola di quella italiana. Le risorse che il governo può mettere in campo per lenire gli effetti sulla popolazione, sono lontane dai bazooka programmati in Europa e negli Stati Uniti. La Russia non ha quei mezzi. Putin aveva messo da parte 165 miliardi di dollari per difendere l’economia da un’eventuale crisi: secondo il Financial Times il disastroso scontro sulla produzione petrolifera con Usa e Arabia Saudita, e il crollo del prezzo del barile, drena 300 milioni al giorno di quel risparmio. Entro la fine dell’anno, il reddito reale russo scenderà del 5%, in aggiunta al 7,5 perso dal 2014 a causa delle sanzioni occidentali in seguito all’occupazione della Crimea.
Nel 2010 il regime cinese aveva inaugurato il piano per una “Società moderatamente prospera” (Xiaokang shehui): in dieci anni avrebbe raddoppiato il Pil. Il virus ritarderà l’obiettivo ma le riforme necessarie rimangono. Perfino un paese chiuso come l’Arabia Saudita ha avviato le sue riforme perché nel 2030 l’economia non dipenda più così tanto dagli idrocarburi. La pandemia colpisce una Russia le cui entrate del bilancio consolidato continuano a dipendere al 50% dalla vendita di gas, ancora secondo il Financial Times.
Dopo aver affidato ai governatori delle regioni la gestione della crisi, Putin sembra disorientato e inadeguato come Trump ad affrontare l’emergenza. Il Centro Levada, l’unica società di sondaggi indipendente in Russia, indica un continuo calo di consensi. In Cina, dove non esiste nemmeno un Levada, il partito non fa sondaggi pubblici sulla popolarità di Xi Jinping. Il regime costruito da Putin è a metà strada fra l’assolutismo di Pechino e una società civile ancora con qualche margine di libertà. In sostanza non è la Cina ma non è nemmeno Occidente: forse la posizione più debole per governare una fase così imprevedibile.
Con gli stati Uniti non c’è dialogo, nemmeno quello tradizionale sul controllo e la riduzione delle armi nucleari: quell’equilibrio strategico – dal quale la Cina è esclusa – che permette alla Russia di definirsi ancora superpotenza. L’amicizia con la Cina ha dei limiti: “Mai l’uno contro l’altro, non sempre l’uno con l’altro”, è la definizione di Dmitri Trenin del Carnegie Moscow Center. Due paesi con 4.200 chilometri di frontiera comune non saranno mai amici fraterni. Lo scontro sempre più duro fra Stati Uniti e Cina non offre alcun vantaggio alla Russia, chiarisce al contrario nuove graduatorie: più che terza incomoda, la Russia è terza in ordine di potenza.
Pubblicato sul blog di Ugo Tramballi Slow News de Il Sole 24 Ore
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