Quando il 21 giugno 2017, con una mossa a sorpresa il re dell’Arabia Saudita Salman Bin Abdulaziz ha nominato suo figlio Mohammed Bin Salman, già ministro della Difesa, quale “principe della corona” e dunque successore al trono, la storia del Medio Oriente è cambiata e il paese protettore dell’Islam sunnita ha decisamente intrapreso un nuovo corso politico. La decisione all’apparenza lungimirante di nominare un trentunenne alla guida della monarchia più conservatrice al mondo, infatti, è stata il preludio a una serie di aperture internazionali che hanno consentito a Riad di stringere importantissimi accordi politici, soprattutto con gli Stati Uniti di Donald Trump, ineludibile player nella geopolitica mediorientale, specie in tempo di guerra.
Molti di quegli accordi, infatti, si rendevano urgenti da tempo, vista la necessità di un cambio di strategia per l’Arabia Saudita, dove la disastrosa guerra in Yemen e la non facile situazione geopolitica ed economica rischiavano di far implodere il regno dei Saud, che a tutt’oggi non riesce ad affrancarsi dal vincolo dei petrodollari e teme l’espansionismo crescente del nemico iraniano, che ha inanellato una serie di successi tra Siria e Iraq.
Salman l’americano
La visita americana di Mohammed Bin Salman di questa settimana è perciò la diretta conseguenza del viaggio compiuto a Riad lo scorso maggio dal presidente USA Donald Trump, dal quale è scaturito non solo un accordo monstre per una gigantesca fornitura da parte americana di materiale bellico e alta tecnologia per un valore di 110 miliardi di dollari, ma soprattutto l’appoggio USA ai sauditi nella ridefinizione della mappa geografica del Medio Oriente (dove Israele è tornato ad avere un ruolo centrale) e la garanzia che Riad e Washington continueranno ad avversare l’Iran nunc et semper.
Intercettato da Jeffrey Goldberg, direttore dello storico magazine The Atlantic, Bin Salman ha rilasciato un’intervista nella quale ha ribadito gli stessi punti sottolineati quasi un anno fa, riferendo cioè di non avere “obiezioni religiose” nei confronti di Israele e della sua capitale Gerusalemme, pur criticando il trasferimento dell’ambasciata USA nella città, e di considerare la Guida suprema iraniana Ali Khamenei come “peggiore di Hitler”.
Dalle pagine dell’Atlantic, Salman ha poi chiarito chi siano i nemici – con quello che ha chiamato triangle of evil ossia il “triangolo del male” di cui fanno parte Iran, la Fratellanza Musulmana e i terroristi sunniti – e gli amici – ovvero l’alleanza autodefinita moderata che include Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti Bahrein e Oman.
Dunque, l’asse Riad-Washington con i suoi principali satelliti Israele ed Egitto, regge e si rinnova grazie a questo astro nascente della politica saudita che, non solo in campo internazionale, sta riformando il suo paese dall’interno per trascinarlo nella contemporaneità (vedi le numerose aperture alle donne e l’ambizioso progetto economico Vision 2030).
L’asse avversario
Ciò nonostante, come dimostra la Trump Tower sulla 5th Avenue di New York City, non è tutto oro quel che luccica. Se, infatti, il presidente americano e il monarca in pectore sono intenzionati a ridisegnare le “alleanze necessarie” in Medio Oriente e a non cedere ai nemici la strategica Siria, sinora l’unico vincitore in questa regione è però la Russia di Putin insieme con il suo alleato Khamenei.
La visita di Salman, dunque, va inquadrata anche nell’ottica del vertice parallelo tenutosi nelle stesse ore ad Ankara tra il presidente russo e i colleghi turco Erdogan e iraniano Rohani, dove si è disegnato un nuovo asse mediorientale, che segna un’alleanza paradossale tra Mosca, Ankara e Teheran, una triangolazione strategica che trova nella spartizione territoriale, nella fornitura di armi e nell’energia nucleare i suoi nodi centrali.
La Turchia, membro della NATO, è così riuscita nel doppio risultato di ricevere armi dal Cremlino (i famosi sistemi missilistici S-400) e di ottenere il via libera da Washington nel massacrare i curdi già alleati degli americani, per imporre una zona cuscinetto lungo tutti i suoi confini, di fatto mettendo in scacco entrambe le superpotenze.
Un risultato non da poco, che ribalta le dinamiche di questa guerra infinita dove gli USA contano di smarcarsi sempre più, disponendo ora di Gerusalemme e Riad per sostituirsi nel ruolo di nuovi “poliziotti della regione” in chiave anti-iraniana, e dove sinora sono riusciti solo a ottenere la presa di Raqqa. Ma la politica atlantica appare debole e miope, e non si sa quanto improvvisata, quanto costretta dalla realtà o quanto costruita a tavolino dal nuovo consigliere della sicurezza nazionale John Bolton. Tale da far ritenere che il disimpegno americano sia soltanto teorico.
In ogni caso, il 2018 si è aperto come un anno pieno d’incognite per il Medio Oriente, dove la ridefinizione di equilibri e alleanze in corso appare più foriero di instabilità e preoccupazioni per una regione che non riesce a trovare pace, che non l’inizio di un vero percorso virtuoso. Ad accendere i nuovi focolai saranno forse anche la questione palestinese da un lato e la questione curda dall’altro, ma soprattutto saranno i nuovi progetti energetici che, partendo dalla volontà di cancellare l’accordo di Obama con Teheran sul nucleare, spingeranno gli Stati Uniti e i suoi alleati a forzare la mano in ogni spazio possibile per arginare il sogno sciita di un Medio Oriente a trazione iraniana, che corrisponde all’incubo per il mondo sunnita e il suo leader Mohammed Bin Salman.
Articolo pubblicato sulla rubrica Oltrefrontiera di Panorama.it
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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