Tra minacce e slogan, le distanze tra Russia e Ucraina diventano sempre più incolmabili. Nelle ultime settimane, Kiev sembra aver “alzato il tiro” delle provocazioni, così da accelerare il processo di emancipazione dall’area post-sovietica e rivendicare la propria lontananza da Mosca. Intanto, nessuna soluzione pacifica si prospetta nel Donbass.
LA MORTE DI UNA BANDIERA
Il 31 agosto 2018, in un caffè di Donetsk, un ordigno è esploso uccidendo il leader separatista Aleksandr Zakharchenko. Presidente dall’autoproclamata Repubblica Popolare (RPD) dal 2014, Zakharchenko era il simbolo dell’opposizione filorussa al governo centrale ucraino, l’uomo al comando che da 4 anni, con un’insolita continuità in un contesto estremamente fragile ed in evoluzione, guidava le sorti della guerriglia e delle istituzioni organizzatesi nella regione. La sua scomparsa è stato un duro colpo per le istanze separatiste e la nutrita partecipazione ai suoi funerali ne ha confermato la grande popolarità. La Russia ha accusato immediatamente l’Ucraina di «complicità nell’attentato terroristico», organizzato per destabilizzare ulteriormente le relazioni e per «far deragliare il processo di pace nel Donbass». Secondo Mosca, l’uccisione di uno dei firmatari del Protocollo di Minsk del 2014 (che ha avuto ben poca fortuna) sarebbe il chiaro segno della volontà ucraina di trovare una soluzione militare alla crisi, piuttosto che politica. Zakharchenko era sicuramente una figura scomoda per Kiev e il presidente ucraino Poroshenko deve giocare bene le sue carte in vista delle elezioni politiche, previste nel maggio 2019. Allontanarsi definitivamente dall’orbita russa e riportare le province di Donetsk e Lugansk sotto il controllo ucraino sarebbero dei traguardi notevoli e degli ottimi “sponsor” elettorali. Dopo la morte del leader separatista, le truppe di Kiev hanno effettivamente accelerato le offensive militari nella regione, colpendo, nelle prime settimane di settembre, almeno una ventina di obiettivi militari dei filorussi. L’intelligence ucraina (SBU) ha invece addossato le colpe proprio alla Russia, che grazie all’eliminazione di Zakharchenko rafforzerebbe così il suo controllo diretto sui ribelli. Il portavoce russo Gryzlov ha annunciato che Mosca intenderà mettere la questione sul prossimo tavolo del Gruppo di Minsk, coinvolgendo l’OSCE e richiedendo un’indagine internazionale. Intanto non si fermano le azioni dinamitarde: il 29 settembre, sempre a Donetsk, è avvenuta un’esplosione che ha ferito 4 persone durante congresso del Partito Comunista della RPD. Dopo quattro anni di guerra e oltre 100mila morti, il Donbass sembra ancora lontano dalla strada verso la pacificazione.
CUIUS REGIO, EIUS RELIGIO
Questa espressione, nata con la Pace di Augusta del 1555, pervade di religione la politica e i princìpi della sovranità nazionale e della non-ingerenza. Anche per questo la Chiesa ortodossa di Kiev non è più disposta ad accettare il ruolo di Mosca come “Terza Roma”, sancito nel Seicento e spesso mal digerito dalle regioni limitrofe, proprio per l’uso politico che ne è stato fatto. Gli ortodossi ucraini, come la maggior parte di quelli dell’ex URSS, sottostanno al Patriarcato di Mosca, una delle quindici Chiese autocefale del mondo ortodosso. Il 7 settembre, il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli ha nominato due esarchi (alti prelati) presso la Chiesa ucraina, avallando così l’aspirazione di questa per l’autocefalia, ovvero l’indipendenza da qualsiasi altra autorità religiosa. Il giudizio del Patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill I è stato durissimo, ritenendo la decisione di Bartolomeo di Costantinopoli una mossa gravissima, con serie conseguenze. La Chiesa russa ha rifiutato fermamente l’attribuzione del diritto di nominare i due rappresentanti a Kiev (fatto che darebbe assenso all’autocefalia), perché con questa decisione il Patriarca di Costantinopoli non sarebbe più un primus inter pares, ma un eretico, accusato di «papismo orientale». Alcune fonti riportano come il Patriarca russo abbia immediatamente disposto l’interruzione delle preghiere nelle funzioni religiose a favore dell’omologo Bartolomeo e della celebrazione dell’Eucarestia assieme ai confratelli orientali. L’11 ottobre, l’ecumene di Costantinopoli ha deciso di annullare il Decreto del 1686, che sanciva il ruolo religioso primario moscovita. Per Mosca è stato il punto di non ritorno: il 15 ottobre il Santo Sinodo russo ha deciso per la definitiva rottura della comunione confessionale raggiunta tra le chiese ortodosse. Il problema, tuttavia, non è squisitamente legato alla dottrina confessionale, ma anche e soprattutto alle relazioni politiche. Il raggiungimento dello status di autocefalia per Kiev sancisce una notevole frattura sul piano religioso e, soprattutto, su quello identitario-politico. Per quanto l’Ortodossia sia declinata in molti riti diversi, quasi a livello regionale, la religione è sempre stata un fattore di appartenenza forte e trasversale: Mosca è da secoli il centro della fede per tutti i credenti dal Baltico al Pacifico. Per l’Ucraina è un passo storico verso il totale affrancamento dalla Russia: Poroshenko ha sottolineato la centralità di questo obiettivo, perseguito da Kiev in maniera «libera e indipendente», come il percorso di adesione alla NATO o alla UE, «senza chiedere il parere di Putin o Kirill». Le due istituzioni moscovite sono particolarmente vicine e la fede come strumento di soft power si è rivelata molto importante per Putin. Negli anni hanno sfruttato entrambi le possibilità politiche e le influenze religiose per costruire un ampio consenso e una forte identità russa e ortodossa. Il Cremlino, tramite la portavoce degli Esteri Maria Zakharova, ha criticato le espressioni del Presidente ucraino, accusandolo di voler influenzare i credenti e portarli allo scontro, solo per ambizioni politiche e giochi di potere (lo stessa soft power citato prima).
LE ACQUE AGITATE DEL MAR D’AZOV
Nel 2003 un accordo tra Russia e Ucraina definì il bacino del Mar d’Azov come «acque storiche», senza sancirne confini e aree di competenza. Nacque così un caso giuridico tuttora irrisolto, anzi aggravato dagli eventi nel Donbass e dall’annessione russa della Crimea. L’inaugurazione del Ponte di Kerch, avvenuta il 15 maggio scorso alla presenza di Putin (che ne ha sostenuto fortemente la realizzazione), è stata la mossa decisiva russa per integrare più rapidamente la penisola crimeana. Allo stesso tempo, la costa sudorientale ucraina si è ritrovata ulteriormente isolata, a causa della notevole riduzione del traffico marittimo. Mariupol, un tempo ricco porto commerciale e punto di riferimento per i complessi industriali del Donbass, è da quattro anni una città di frontiera, le cui attività sono gravemente regredite. Inoltre, l’accesso al piccolo mare è fortemente pregiudicato dalla discrezionalità della Marina russa, che sembra controllare de facto aree ben più ampie di quelle di competenza. Così il Governo di Kiev, per riaccendere le proprie pretese e superare l’opposizione navale russa, ha deciso di spostare alcune unità militari dal porto di Odessa a quello di Mariupol. I mezzi (un rimorchiatore Korec, una nave da guerra Donbass e due piccole imbarcazioni corazzate) hanno attraversato lo stretto di Kerch tra il 24 e il 25 settembre. La situazione resta piuttosto tesa. L’Ucraina, che ha organizzato delle esercitazioni militari nella zona, pare intenzionata a recuperare le rotte perdute e la sovranità sul bacino, ribadendo il percorso d’adesione a UE e NATO e dichiarandosi pronta a reagire a nuove provocazioni. La Russia, dopo aver raggiunto l’Accordo sullo status giuridico sul Mar Caspio nell’agosto scorso, dovrà trovare una strada diplomatica per definire finalmente anche la spartizione del Mar d’Azov, piccolo, ma strategico: a Rostov-na-Donu, infatti, si trovano anche la Quarta Armata aerea russa e il comando del Distretto Militare Meridionale.
Mattia Baldoni
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