C’è pure un pezzetto di Juventus nel tesoro della famiglia di Gheddafi in Italia. È un tesoro che – scusate il bisticcio – il Ministero del Tesoro in Italia ha ora deciso in parte di sbloccare: ma non la quota della società bianconera. La decisione, infatti, nel chiudere un caso ne apre subito un altro, perché in realtà non si sa a questo punto a chi questi beni andranno restituiti. E ciò sembra aver consigliato un minimo di cautela.
L’iniziativa di chiedere il sequestro era venuta nel 2012 da parte del Tribunale Internazionale dell’Aja, all’epoca in cui in Libia la sollevazione contro il raìs si era trasformata in una guerra civile in cui i due eserciti andavano avanti e indietro nel deserto esattamente come era avvenuto settanta anni prima ai tempi di Rommel, fino a quando il decisiovo intervento della Nato non aveva fatto pendere la bilancia dalla parte dei ribelli. Salvo poi quelli mettersi a litigare tra di loro, frantumando il Paese in una miriade di autorità i conflitto. Era di 1,1 miliardi l’ammontare del solo patrimonio immobiliare in Italia di cui appunto in base alla richiesta dell’Aja la Guardia di Finanza aveva proceduto al sequestro: uffici; alcuni alberghi di cui il più importante a Pantelleria; alcuni terreni situati a Roma. Ma poi c’erano anche i beni mobili, consistenti in quote azionarie di società come Fca, Eni, Cnh e, appunto, Juventus. Cose che in qualche caso ultimamente hanno pure acquistato valore, come è avvenuto alla Juventus sospesa in Borsa per eccesso di rialzo dopo la qualificazione a sorpresa in Champions.
Dopo sette anni, il Comitato di Sicurezza Finanziaria del Tesoro ha deciso di sbloccare i soli asset immobiliari, che tornano adesso nelle disponibilità della Lafico: l’autorità per gli investimenti all’estero dei soldi ricavati all’estero voluta da Gheddafi già negli anni Settanta e poi nel 2006 inglobata nel fondo sovrano Lia (Lybian Investment Authority). Ma la Lia non è affatto chiaro per conto di chi agisca, in un Paese dive ci sono per lo meno due centri di potere principali: il governo di Fayez al-Serraj a Tripoli e quello appoggiato dal generale Haftar a Torbuk. Ognuno con un suo governo, un suo parlamento, un suo esercito, una sua banca centrale e una sua sfera di alleati e protettori. Ma in più c’è anche una quantità di milizie che un po’ stanno con l’uno, un po’ con l’altro, molto per conto proprio e più ancora pensano a spararsi addosso a vicenda.
Poiché l’Italia riconosce il governo di Tripoli, in teoria la decisione dovrebbe avvantaggiare Al-Sarraj. Ma su quella parte del capitale di Lafico corrispondente allo 0,58% di Eni, al’1,26% di Unicredit, al 2% di Leonardo (ex Finmeccanica), all’1,15% della Juventus, allo 0,33% di Fca (ex-Fiat) e allo 0,33% di Cnh non è arrivata ancora alcuna decisione. E qualcuno ci legge una qualche forma di fare un’offerta a Haftar. L’Italia è in effetti il secondo Paese in Europa a prendere una decisione del genere, dopo il Belgio. Ma su Bruxelles pende il sospetto che abbia in realtà utilizzato una parte delle somme ufficialmente congelate per finanziare in Libia milizie e gruppi ribelli: almeno due miliardi custoditi da filiali di banche belghe sarebbero scomparsi secondo quanto hanno evidenziato sia interrogazioni parlamentari che inchieste giornalistiche. Una indagine della magistratura belga è partita dall’autunno del 2017 sugli interessi e i dividendi maturati in 7 anni sui 16 miliardi appartenuti al raìs e congelati in 5 banche belghe in base a una risoluzione Onu. Anche il generale della Cirenaica Haftar dice che le armi sarebbero finite agli islamisti e ai miliziani della Tripolitania.
Articolo pubblicato su Libero
Maurizio Stefanini
Romano, classe 1961, maturità classica, laurea in Scienze Politiche alla Luiss, giornalista dal 1988. Specialista in America Latina, Terzo Mondo, movimenti politici comparati, approfondimenti storici.
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