Idlib

Idlib e l’area attorno a Damasco sono al momento i fronti più caldi del conflitto siriano. Ieri, domenica 7 gennaio, a Idlib, città in mano a milizie ribelli e jihadiste, un’autobomba è esplosa a Thalatheen Street uccidendo oltre 20 persone. A essere colpito è stato il quartier generale del gruppo Ajnad al-Qawqaz, fazione composta da combattenti dell’Asia Centrale, in prevalenza caucasici ma anche uiguri della provincia cinese dello Xinjiang.

La modalità d’attacco utilizzata fa credere che si tratti di un regolamento di conti tra gruppi anti-governativi. Ultima provincia controllata in larga parte ancora dai ribelli, Idlib è una delle quattro zone di de-escalation concordate nel maggio 2017 da Mosca, Teheran, Ankara e Damasco. Le altre tre si trovano tra i governatorati di Hama e Homs, nel Goutha Orientale a nord di Damasco e a sud al confine con la Giordania. Dopo la caduta di Aleppo nel dicembre 2016, Idlib è di fatto diventata la nuova “capitale” dell’opposizione armata siriana.

Qui operano parte dei vertici del Free Syrian Army (circa 30mila miliziani appoggiati da Ankara che punta su di loro per garantirsi i territori confinanti con la Turchia, come Al-Bab e Jarabulus), l’influente formazione Ahrar al-Sham e, soprattutto, gruppi salafiti-jihadisti confluiti nella coalizione Hayat Tahrir al-Sham (composta da circa 10mila miliziani, guidata dai qaedisti di Jabhat Fatah al-Sham, ex Jabhat al-Nusra) di cui fa parte anche Ajnad al-Qawqaz. Gli attacchi con autobomba nel centro di Idlib, come quello avvenuto ieri, sono molto frequenti, e in più occasioni a essere accusate sono state anche cellule dello Stato Islamico che però, almeno sulla carta, non dovrebbero avere molta influenza nella città.

 

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L’offensiva dell’esercito siriano

Da diverse settimane le unità di élite dell’esercito regolare siriano, la 4° divisione meccanizzata e il corpo volontario delle Tigri, hanno aumentato la pressione da sud-est per riprendere il controllo del governatorato di Idlib con il sostegno dell’aviazione russa. Idlib e la limitrofa provincia di Hama sono strategiche tanto per il governo del presidente Bashar Al Assad quanto per la Russia poiché sono adiacenti all’area costiera del Paese dove si trova la base aerea di Khmeimim controllata da Mosca.

Gli obiettivi principali dell’offensiva sono due: il tratto di autostrada che, passando da qui, collega la capitale ad Aleppo; la base aerea di Abu Duhur, persa dai governativi nel 2015 dopo un assedio durato quasi tre anni e all’interno della quale sono stati giustiziati decine di soldati di Assad.

I governativi stanno avanzando da sud-est rispetto a Idlib e finora hanno effettuato sortite a nord-ovest di Sinjar (località strategica situata a 15 chilometri da Abu al-Duhur e dove sono state neutralizzate le ultime sacche di resistenza jihadiste) e liberato le città di A’jaz e Karratin al-Kabirah. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani con base a Londra, dal 25 dicembre le forze del regime hanno ripreso nell’area più di 60 tra cittadine e villaggi, e altre 35 località sono stati liberate nella provincia di Hama.

A Idlib vivono in tutto due milioni di siriani, metà dei quali sono stati sfollati dalle zone riconquistate dai governativi. Decine di migliaia tra ribelli e civili hanno riparato qui dopo la caduta di Aleppo. La più grande concentrazione di persone si trova nella parte est della città, ed è qui che si temono altre vittime nei prossimi giorni. Secondo l’ONU dal primo novembre i combattimenti e i raid aerei dei caccia siriani e russi hanno costretto oltre 60.000 persone a fuggire dalle loro case.

 

 

La situazione a Damasco e al confine con l’Iraq

L’esercito siriano continua ad avanzare anche nell’area attorno a Damasco. I governativi hanno rotto l’assedio alla base militare di Harasta, situata nei pressi della città di Ghusa. La base, dove sono di stanza circa 250 soldati siriani, era stata attaccata più volte dal novembre scorso da Ahrar Al Sham nel tentativo di smorzare la pressione dei lealisti nel Ghouta orientale, dove dal 2013 restano intrappolate più di 300.000 persone. Il bilancio dei morti dal 31 dicembre è di almeno 160 combattenti tra filo-governativi e ribelli.

Sullo sfondo resta aperto il terzo fronte del conflitto siriano, nella parte est del Paese lungo le rive del fiume Eufrate tra Al-Mayadin e Al-Bukamal. Qui ISIS è ancora una minaccia viva, come dimostrano i ripetuti attacchi effettuati dagli uomini del Califfo Abu Bakr Al Baghdadi negli ultimi mesi contro soldati di Assad ma anche contro le milizie arabo-curde sostenute dagli USA.

 

Il futuro della Siria

Con i colloqui di Ginevra ormai relegati in secondo piano dalle trattative di Astana e Sochi coordinate dalla Russia, sono le armi a dettare legge in Siria anche nelle zone di de-escalation come dimostra quanto sta avvenendo a Idlib e attorno a Damasco.

Da un lato è evidente che l’opposizione armata continui a ricevere supporto logistico e finanziamenti tanto dagli Stati Uniti quanto soprattutto dalla Turchia e da diversi Paesi del Golfo. Dall’altro, nonostante gli importanti passi in avanti fatti negli ultimi due anni grazie all’intervento della Russia, Assad non può dirsi per nulla padrone del proprio destino. Molte delle vittorie conseguite sul campo sono dovute al sostegno garantito all’esercito siriano dai libanesi di Hezbollah, dalle unità scelte iraniane e da altre milizie sciite addestrate e controllate da Teheran.

Lo scenario che si prospetta è pertanto quello di cui parlava già anni fa l’ex inviato della Lega Araba e delle Nazioni Unite Lakhdar Brahimi, ovvero la «somalizzazione» della Siria. Al pari di Mogadiscio, finita la guerra civile anche Damasco potrebbe avere un governo riconosciuto a livello internazionale e una propria rappresentanza permanente presso l’ONU. Ma, al pari del governo somalo, finirà per non governare i territori che formalmente ha sotto il suo controllo.