Nella Ghouta, periferia orientale di Damasco, è in corso la fase finale della battaglia scatenata dai governativi per mettere in sicurezza la capitale della Siria. Una mossa voluta dal presidente Bashar Al Assad e preventivamente concordata con Mosca, che intende porre fine una volta per tutte alle sacche di ribelli e jihadisti che minacciano la sicurezza della capitale, sulla quale piovono quasi giornalmente razzi e colpi di mortaio.
Per arginare questa minaccia, che fa dire agli osservatori internazionali come neanche Damasco possa dirsi sotto controllo – con grave disappunto del governo – il regime ha usato una violenza inusitata, riprendendo lo stile delle forze armate russe che sono solite bombardare consapevolmente finanche gli ospedali, per fiaccare qualsiasi resistenza all’insegna del motto “il fine giustifica i mezzi”. Una spietatezza, quella del Cremlino, che rappresenta un modus operandi già visto molte volte in passato, da Grozny ad Aleppo, e che fuori da ogni giudizio morale è solito garantire loro “il risultato”. Pertanto, la carneficina in corso a Ghouta è figlia di questa tattica, che se ne frega delle regole e delle critiche delle Nazioni Unite.
Così, le notizie relative ai convogli umanitari, che non possono entrare nelle zone di guerra per sfamare e curare i feriti neanche durante le ore di cessate-il-fuoco (come invece concordato al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite), fanno temere il peggio e orientano l’opinione pubblica verso l’idea che Bashar Al Assad sia un vero macellaio. Ma anche questa è la guerra, e non ci sono dubbi sul fatto che l’una e l’altra parte stiano versando fiumi di sangue, spesso innocente.
Pro o contro Assad?
Qualche giorno fa, sul quotidiano Tempi è stata pubblicato un appello delle suore trappiste di Siria che si domandava il perché «nessuno si occupa della situazione in Siria con questo genocidio in atto? Perché vediamo tutto quello che vediamo ma Onu e comunità internazionale restano lenti e silenti? Quali sono i motivi? Cosa porta a questo immobilismo?». Il punto di vista delle sorelle, che hanno visitato più volte la capitale Damasco, è tuttavia interessante e non punta il dito contro Assad ma contro il giornalismo di parte che s’interessa delle crisi umanitarie «soltanto quando il Governo siriano interviene» e non invece quand’anche le bombe dei ribelli fanno stragi in scuole e quartieri della parte governativa della città.
Insomma, l’opinione pubblica – è la tesi delle religiose – s’indigna a comando e segue pedissequamente le informazioni costanti e circostanziate dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani. Che, tuttavia, è un ente con base a Londra e non ha una sede né a Damasco né ad Aleppo o in altre città siriane. Già in altre occasioni, vale la pena sottolinearlo, l’Osservatorio ha dimostrato un atteggiamento ondivago se non di parte in questa guerra, puntando il dito quasi esclusivamente contro il regime di Assad e facendo solo blande reprimenda alle opposizioni. Tra le quali, vale la pena ricordarlo, militano non pochi jihadisti.
Classico esempio di quanto sopra, sono le accuse rivolte contro i governativi circa l’uso di gas chimici sulle forze ribelli e la popolazione civile. Un tema scottante, che ha generato l’ira di numerose cancellerie occidentali – Washington in prima fila – e che in passato ha rischiato di far scattare un intervento diretto dei paesi NATO per punire il rais di Damasco, reo di aver contravvenuto alle regole internazionali sui diritti umani (è la famosa “red line”).
Di certo, su questo tema si è espressa una Commissione delle Nazioni Unite, secondo cui tra il 2012 e il 2017 la Corea del Nord avrebbe fornito materiali e know how al governo siriano di Bashar Al Assad per la produzione di armi chimiche, poi usate in almeno 4 occasioni durante la guerra civile.
Il tempo degli eserciti
Ma il punto è un altro. La battaglia della Ghouta è entrata nella fase decisiva e niente potrà dissuadere Damasco dal polverizzare fino all’ultimo dei nemici, perché questo è nelle sue capacità. E nessuno può farci niente. Così come nessuno può impedire alla Turchia di devastare il nord della Siria e intrappolare i curdi di Afrin, finché non ne avrà avuto ragione. Mentre gli Stati Uniti non consentiranno ai soldati siriani di tentare la conquista di Deir Ezzor, poiché tutto ciò che si trova a est dell’Eufrate è considerato un “protettorato USA”.
In definitiva, le Nazioni Unite – e il Consiglio di Sicurezza in primis – sono nient’altro che una plastica rappresentazione delle potenze internazionali che più contano nella geopolitica. E ogni volta che queste nazioni non si trovano d’accordo, non devono far altro che utilizzare gli strumenti legislativi della governance ONU per imbrigliare di fatto ogni decisione, lasciando in maniera pilatesca che siano i fatti a decidere al posto dei rappresentanti delegati.
In Siria, tutto questo è ancor più vero. Nessuno desidera davvero risolvere la situazione perché, da un lato, concedere la vittoria ad Assad significherebbe una sconfitta per quelle forze – soprattutto USA, Turchia, Israele, Arabia Saudita – che desiderano la fine della dittatura sciita-alawita e l’ascesa di una compagine sunnita al potere. Dall’altro, garantire al potere il dittatore siriano sancirebbe non solo la vittoria della dirigenza damascena, ma darebbe grande slancio alle mire di Russia e Iran, che sono a un passo dallo stabilire un protettorato di lungo corso in un’area strategica del Medio Oriente.
Per tutte queste ragioni, le molteplici parti in causa si sono convinte da tempo che nessuna Risoluzione ONU potrà determinare il futuro siriano, ma soltanto le armi potranno evitare l’impasse. Un modus operandi che peraltro stanno vivendo anche il semi-fallito Iraq, così come lo Yemen dimenticato da tutti. E infine la Libia, dove i vari inviati speciali hanno soltanto finto di voler risolvere la situazione, fallendo miseramente ancor prima di tentare davvero d’incidere. Quello che stiamo vivendo, purtroppo, è il tempo degli eserciti, cui corrispondono un lento declino della diplomazia e del pacifismo.
Articolo pubblicato sulla rubrica Oltrefrontiera – Panorama.it
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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