Siria, Damasco. Le forze armate fedeli al presidente Bashar Al Assad hanno lanciato la notte fra il 19 e il 20 febbraio un’operazione militare contro le forze ribelli che ancora controllano Jobar, Harasta e Goutha, i quartieri orientali della capitale diventati simbolo della resistenza al regime. Si tratta di un redde rationem che promette di fare piazza pulita del nemico una volta per tutte. L’operazione è la più vasta dal 2012 e, mentre scriviamo, sono già oltre centinaia i morti tra la popolazione e c’è incertezza sulle vittime tra i civili e le milizie che si oppongono apertamente al regime.
Il punto sull’intervento militare turco
Ma non è tutto. Alcune divisioni governative stanno contemporaneamente marciando verso il nord del paese, in direzione di Afrin, dove si sta consumando un violentissimo scontro tra le milizie curde dello YPG e l’esercito turco, che dal 20 gennaio scorso ha lanciato in territorio siriano l’“Operazione Ramoscello d’Ulivo” al fine di eliminare la presenza dei ribelli curdi dal confine turco. Questa manovra bellica segue l’accordo siglato tra i miliziani curdi e i governativi di Damasco, entrambi impegnati nel frenare l’offensiva turca nella regione prima che Ankara si avvantaggi troppo di una posizione strategica, dalla quale è possibile minacciare la stessa Aleppo.
Secondo fonti curde, le forze governative siriane entreranno nel distretto di Afrin entro il 20 febbraio. Damasco, infatti, ripete da tempo il refrain secondo cui la Siria «non cederà un centimetro del suo territorio». Mentre Ankara ha già fatto sapere che la Turchia «continuerà la sua avanzata verso Afrin con determinazione» e che nel caso in cui le forze filo-Assad dovessero sostenere le milizie curde dello YPG, ci saranno «serie conseguenze». Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu lo ha detto ancor più chiaramente: «la Turchia desidera l’unità territoriale della Siria. Ma bisogna capire per quale motivo Assad entrerebbe ad Afrin. Se vuole combattere i terroristi, nessun problema. Ma se vuole difenderli, allora nessuno fermerà i soldati turchi».
L’evoluzione del conflitto
Dunque, il settore nordoccidentale della Siria è in fiamme, così come le periferie della capitale. Per non parlare delle recenti sortite aeree di Israele, che hanno distrutto numerose postazioni della contraerea siriana e depositi di armi che Damasco condivide con l’alleato libanese Hezbollah. La Siria, insomma, dopo il collasso del Califfato sta conoscendo un’evoluzione del conflitto, dove agli eserciti raccogliticci di mercenari, jihadisti e foreign fighters, ora si vanno sostituendo direttamente gli eserciti regolari. Da tempo, i cieli siriani sono solcati quotidianamente dai caccia della coalizione internazionale, così come da elicotteri russi e da bombardieri di diverse bandiere. Decine ne sono caduti, e altri seguiranno.
Questo per sottolineare come la guerra civile siriana, dopo sette anni di recrudescenze, sia ormai un conflitto internazionale, che promette di peggiorare sensibilmente la situazione attuale. Ammainate le insegne della pace e violati ripetutamente gli accordi di Astana, Ginevra e quant’altro, gli eserciti di Russia, Turchia, Damasco, Iran e Israele sono pericolosamente giunti sull’orlo dello scontro diretto.
Inoltre, mentre le Nazioni Unite balbettano e si nascondono dietro la coperta del Consiglio di Sicurezza, pietrificato dalle sue regole inefficaci, Francia e Stati Uniti stanno già preparando la strada per eventuali azioni unilaterali. Lo scopo? Punire Bashar Al Assad, reo di aver usato armi chimiche contro la sua popolazione. Se l’ONU otterrà le prove, la Siria è destinata a conoscere una guerra ancora peggiore di quella che abbiamo osservato dal 2011 a oggi.
Così come se Israele si troverà davanti a una nuova provocazione, dopo il drone iraniano che ha violato il suo spazio aereo e che ne ha provocato la reazione violenta che ha portato a un attacco senza precedenti negli ultimi decenni. Il rischio percepito da Gerusalemme è la “saturazione” ovvero la consapevolezza che troppe armi ed eserciti ammassati al confine, siano impossibili da fermare. Per questo l’attacco è considerato dalla difesa israeliana come la migliore arma di difesa.
Insomma, i pretesti dall’una e dall’altra parte non sono difficili a trovarsi per nuove sortite e interventi più o meno pesanti. Questo perché ogni nazione coinvolta in Siria ha un obiettivo specifico, cui non intende rinunciare e che non coincide affatto con quello degli altri.
A cosa puntano le forze in campo
Alla fine di febbraio 2018, siamo perciò giunti al punto più critico della guerra perché, tranne la Russia, nessuno ha ancora raggiunto l’obiettivo strategico che si era prefisso: Ankara vuole la sconfitta e il disarmo totale delle forze curde; Damasco sogna di riprendere l’intero paese; l’Iran desidera farne un suo protettorato; Israele vuole allontanare la minaccia dai confini; gli Stati Uniti pensano di rimuovere il dittatore Assad e costituire un’area d’influenza nell’est sunnita al confine iracheno.
Tutti gli altri, Stato Islamico compreso (che ancora resiste sul confine iracheno ed è presente sia a Damasco che a Deir Ezzor), si stanno riorganizzando per non abbandonare le posizioni conquistate durante questo lungo bagno di sangue.
In conclusione, la Siria oggi è una terra di nessuno dove le alleanze si fanno e disfano nel giro di pochi mesi, funzionali solo a non concedere troppo terreno all’avversario. Mentre va scomparendo questo paese unitario un tempo perla del Medio Oriente, nuove minacce incombono sulla popolazione. Se le milizie hanno segnato il primo tempo di questo conflitto. Adesso, il secondo tempo è tutto degli eserciti.
Articolo pubblicato sulla rubrica Oltrefrontiera di Panorama.it
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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