Le cronache di guerra di questa settimana siriana d’inizio febbraio rappresentano una cartina di tornasole dello stato dell’arte del grande conflitto mediorientale. La situazione sul campo dimostra plasticamente quale sia la realtà: la guerra prosegue con inusitata violenza e il migliaio e più di morti lasciati a terra in pochi giorni in diverse regioni della Siria cancellano definitivamente i trionfalismi e le più ottimistiche previsioni di quanti, vedendo lo Stato Islamico sconfitto, credevano che le armi avrebbero finalmente ceduto il passo alle trattative di pace.
Davanti a chi riteneva che il risiko politico e militare si sarebbero risolti in favore del regime di Bashar Al Assad e degli alleati russo-iraniani, certi che il paese stesse per tornare unito, adesso si para una ben diversa realtà.
Nell’ordine, questi giorni sono stati connotati da una serie di azioni che mostrano il vero volto, quello cioè internazionale, della crisi. In ordine sparso, l’aviazione dello Stato d’Israele ha bombardato depositi di armi intorno a Damasco, mentre le forze di Assad hanno infierito sulle sacche di oppositori al regime intorno all’imprendibile roccaforte di Ghouta. Gli Stati Uniti, invece, hanno compiuto pesanti raid contro i governativi di Assad, facendo strage di soldati sulla sponda occidentale dell’Eufrate a Deir Ezzor, dopo che le forze arabo-curde sulla sponda orientale erano state a loro volta attaccate da Damasco.
La Russia, invece, ha martellato di bombe la provincia ribelle di Idlib, dove resistono jihadisti e ribelli fuggiti da Aleppo e pronti a dar battaglia sino all’ultimo uomo. Infine, la Turchia è avanzata in forze nel nordest della Siria, mietendo centinaia di vittime tra le milizie curde dello YPG, posizionate ad Afrin e decise a non abbandonare il territorio che vorrebbero eleggere a stato curdo indipendente.
Saltata l’intesa Stati Uniti-Russia
Insomma, basterebbe questo per abbandonare ogni prudenza nell’analisi e affermare che la Siria dovrà attendere almeno un altro anno di terrore e morte, prima di poter celebrare la fine delle ostilità. E si dovrà anche fare i conti con una divisione definitiva del paese, ormai troppo spaccato per sperare in una rapida ricomposizione.
La complessa situazione del conflitto siriano è stata ben inquadrata dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov mercoledì 7 febbraio, durante una conferenza a Sochi. “È molto probabile che gli americani abbiano intrapreso un processo di divisione del Paese. Hanno modificato quello che era l’unico obiettivo della loro presenza in Siria, vale a dire sconfiggere lo Stato Islamico e i terroristi. Ora stanno dicendo che manterranno la loro presenza fino a quando non si assicureranno che inizi un processo stabile per arrivare a un accordo politico in Siria”. Il che implica anche “un cambio di regime”, che poi è ciò che Washington considera inevitabile e resta la cifra della politica estera espressa dalla Casa Bianca sopra la Siria sin dal lontano 2011.
L’intesa che era stata raggiunta a Deir Ezzor tra Washington e Mosca pochi mesi fa, dunque, di fatto è già saltata. Gli Stati Uniti, come detto, non intendono abbandonare l’area, e a dimostrarlo ci sono le migliaia di suoi militari (migliaia secondo indiscrezioni, di certo edulcorate, del Cremlino) schierati in tutta la parte orientale della Siria a sostegno delle SDF, le forze arabo-curde finanziate dal Pentagono. Il che disegna la situazione di stallo totale che credevamo di aver lasciato alle spalle nel 2017. Ma tant’è.
Il quadro iracheno
Si aggiunga a questo quadro cupo che anche in Iraq, sorella sventurata della grande guerra civile mediorientale, la situazione è sì migliore, ma non così tanto da poter esultare. Mentre a Baghdad si contano attentati e regolamenti di conti, al ritmo di un paio di autobombe al giorno, nel nordest del paese continuano scontri quotidiani tra i governativi e le centinaia di milizie, appartenenti soprattutto allo Stato Islamico, che sono sfuggite alla cattura o alla morte nei giorni della caduta del Califfato: rifugiatesi nelle alture nel deserto, da qui compiono sortite colpendo gli impianti petroliferi del governo, nella speranza di riprenderne il controllo e condizionare la geopolitica irachena.
L’area del nordest iracheno, dopo la sconfitta dei miliziani dell’ISIS, era passata prima sotto controllo curdo e poi ripresa manu militari dalle forze irachene lo scorso ottobre, durante l’offensiva dei governativi contro il Kurdistan di Massoud Barzani, che ha pagato caro il referendum unilaterale per ottenere l’indipendenza da Baghdad. Se attualmente il sogno dei curdi iracheni è svanito, nessuno però riesce a impadronirsi della regione e dei suoi preziosi impianti.
I White Flags, gli “eredi” dello Stato Islamico
In mezzo a ciò, è emerso anche un inquietante segnale: una bandiera bianca con un leone rampante. È il nuovo simbolo, criptico e per il momento poco reclamizzato, che ha iniziato a diffondersi nel nord dell’Iraq e sotto il quale militano forze residue dello Stato Islamico e curde che sono state espulse dalle rispettive roccaforti. Si fanno chiamare White Flags, una sigla ignota ai più, ma che inizia ad assumere dimensioni preoccupanti.
La loro comparsa risale al dicembre 2017, quando miliziani bene armati hanno iniziato ad attaccare senza sosta lo stabilimento petrolifero di Jambur, nel nord dell’Iraq e poco a sud di Kirkuk, giustappunto una delle ultime frontiere dell’Iraq del dopo Califfato.
«I White Flags attaccano quasi tutti i giorni, di solito all’alba e al tramonto. Hanno un sacco di armi, tra cui artiglieria e mortai. Sono un’alleanza di ex militanti dello Stato Islamico e membri della mafia curda» afferma un responsabile per la sicurezza della struttura petrolifera di Jambur.
La novità rappresentata dai White Flags, consiste nella strana – e forzata – alleanza curdi-sunniti: queste milizie radicali sono infatti favorite nella loro ascesa dal sostegno della popolazione un tempo soggetta al Califfato, che teme più di ogni altra cosa i governativi iracheni e soprattutto gli sciiti stranieri i quali, dopo aver liberato le città occupate, si sono resi responsabili di feroci ritorsioni sui civili.
L’alleanza è dunque strumentale alla loro sopravvivenza e risente sia della sconfitta patita sul campo da entrambe le anime indipendentiste e rivoluzionarie del nord Iraq, sia del peso della riorganizzazione della società irachena dopo che il paese è andato in frantumi.
Il futuro delle famiglie e degli ex appartenenti allo Stato Islamico, che erano e restano molti più di quanto non si creda, rimane uno dei più complessi problemi dell’Iraq piagato dalla guerra civile, visto che per molti di loro non esiste più una casa o una possibilità di pace sociale. Stesso destino incerto che si profila per i curdi. Anche per questo, c’è chi vede nei White Flags una speranza e un’opportunità di rivalsa.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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