Nella ancor giovane democrazia coreana del Sud – 33 anni – il presidente uscente Moon Jae-in ha stravinto le elezioni. Il suo Partito Democratico ha conquistato 180 dei 300 seggi parlamentari, 60 più del voto precedente. Dall’entrata in vigore della Costituzione democratica del 1987 non c’era mai stata una vittoria così netta.
La vera notizia non è questa. Quello coreano è stato il primo voto della nuova Era D.C (Dopo Covid). Con guanti e mascherine, gli elettori sono andati ai seggi tenendo le distanze necessarie e pensando che l’esercizio di questa libertà fondamentale fosse più importante della legittima paura del contagio: ha votato il 66,2% degli elettori. In tempi diversi Moon avrebbe meritato di vincere per la sua coraggiosa e ostinata volontà di dialogo con la dittatura confuciano-post-maoista dei cugini del Nord: i quali durante la campagna elettorale del Sud hanno continuato a lanciare missili nel Mar del Giappone.
Invece, nonostante una crescita economica deludente (1,9%), Moon ha trionfato per la sua invidiabile gestione dell’epidemia. Anche a causa della minaccia permanente del regime di Pyongyang, la Corea del Sud ha un sistema sanitario efficiente e pronto alle peggiori emergenze: un’invasione militare convenzionale, un attacco nucleare, chimico o batteriologico dal Nord.
In ogni caso, questo non toglie nulla alla prima vittoria della democrazia sul virus. In generale, guardando ai sondaggi in giro per il mondo, nei paesi democratici per ora l’opinione pubblica tende a premiare chi governa. Se si escludono Donald Trump e il brasiliano Jair Bolsonaro la cui arma più efficace è “affrontare il virus da uomini, dannazione”, la gente tende a perdonare gli errori dei loro leader davanti a una crisi così inaspettata. Credo che dipenda soprattutto dalla paura per la pandemia, percepita come un’invasione di extraterrestri o Godzilla che emerge dall’oceano: davanti a un nemico sconosciuto il popolo disorientato si affida a chi lo governa.
Lunedì scorso ero stato invitato a “Radio Anch’io” su Rai1. Giorgio Zanchini, il conduttore, mi ha chiesto quali sistemi politici perderanno e quali usciranno vincitori dall’emergenza del Covid-19. Naturalmente dittature e regimi illiberali hanno gioco più facile. Quando in Bielorussia Alexander Lukashenko consiglia di combattere il virus facendo saune e bevendo Vodka, non deve scusarsi con nessuno. Così Vladimir Putin e Xi Jinping per quanto le ombre sulla gestione del primo mese di epidemia siano pesanti.
Ma la mia opinione era e rimane che non sarà il governo del virus a determinare, per esempio fra due-tre anni, chi vincerà fra democrazia e autoritarismo. In un certo senso il coreano Moon è fortunato a essere stato giudicato dal suo elettorato per il contenimento del corona. Molto meno lo saranno i leader dei paesi democratici che dovranno farsi eleggere dai cittadini quando la loro angoscia sarà la conseguenza del Covid-19: l’inevitabile crisi economica che gli espetti paragonano a quella del 1929.
Se guardiamo alle grandi crisi sorprendentemente numerose dei primi vent’anni di questo secolo, tutte mettono in discussione i fondamenti democratici della globalizzazione, delle frontiere aperte a idee, uomini e merci: l’11 Settembre con l’apparizione del terrorismo islamico, la crisi finanziaria del 2008, la crescita del sovranismo sulle due sponde dell’Atlantico. Ora il virus, prima come minaccia sanitaria che limita i nostri orizzonti al domicilio, e presto come cigno nero economico che insidia la qualità del nostro futuro più di tutte le altre crisi di questo secolo. Prima ancora che lo tsunami mostri tutta la sua forza, l’assalto alle democrazie è già incominciato.
Pubblicato sul blog di Ugo Tramballi Slow News de Il Sole 24 Ore
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