Oltre 300 morti e altre centinaia di feriti. È questo il bilancio ancora provvisorio della strage avvenuta nel pomeriggio del 14 ottobre a Mogadiscio, capitale della Somalia. L’attentato, il più violento nella disgraziata storia di questo Stato fallito, è stato effettuato con due camion bomba saltati in aria mentre venivano inseguiti dalle forze dell’ordine somale in quanto considerati sospetti. La deflagrazione è avvenuta nel centro della città nel distretto di Hodan a pochi passi dal Safari Hotel e dalla sede del ministero degli Esteri, in un orario in cui l’area era particolarmente affollata per la presenza di molte attività commerciali. Il Safari Hotel, frequentato abitualmente da esponenti del governo, diplomatici e uomini d’affari stranieri, è stato ridotto dall’esplosione in un cumulo di macerie. Tra le vittime ci sono quattro volontari della Mezzaluna Rossa somala e alcuni funzionari del governo, tra cui il direttore generale del ministero degli Affari Umanitari Mohamoud Elmi.
L’attentato non è stato ancora ufficialmente rivendicato, anche se modalità d’azione, tempistiche e obiettivi colpiti sono elementi che contraddistinguono il modus operandi dei miliziani islamisti di Al Shabaab.
Chi sono gli Al Shabaab
“Harakat Shabaab al-Mujahidin”. È questo il nome d’origine dell’organizzazione islamista filo-qaedista somala meglio nota come Al Shabaab (dall’arabo “La Gioventù”). Nata nel 2006 dall’ala estremista dell’Unione delle Corti Islamiche nel corso della guerra in Somalia, Al Shabaab combatte per rovesciare il governo di Mogadiscio e imporre la Sharia in tutto il Paese, secondo una versione radicale dell’Islam. Nel 2008 il gruppo si è “guadagnato” l’inserimento nella black list delle organizzazioni terroristiche internazionali da parte degli Stati Uniti.
Il capo dell’organizzazione è Ahmed Umar (conosciuto anche come Abu Ubaidah), subentrato nel settembre 2014 a Ahmed Abdi Godane (noto come Mukhtar Abu Zubair), ucciso da un raid aereo americano a sud di Mogadiscio. Si deve a Godane l’affiliazione ufficiale di Al Shabaab ad Al Qaeda, sancita nel febbraio del 2012 in un video in cui l’ex leader del gruppo somalo appariva in compagnia del capo di Al Qaeda, Ayman al-Zawahiri. La visione internazionale di Godane si è però spesso scontrata con gli interessi territoriali dei vari clan che compongono l’ossatura dell’organizzazione. Ad oggi la minaccia principale alla leadership di Umar è rappresentata da una cellula affiliata allo Stato Islamico che opera principalmente nel Puntland agli ordini del dissidente Abdulqadir Mumin, dall’agosto del 2016 inserito nella black list dei terroristi internazionali stilata dal Dipartimento di Stato americano.
Il capo di Al Shabaab è Ahmed Umar, subentrato nel settembre 2014 ad Ahmed Abdi Godane. Nella regione del Puntland a contendergli la leadership è Abdulqadir Mumin, affiliatosi a ISIS
Nonostante questa frammentazione interna, Al Shabaab mantiene saldamente il comando di vastissime aree del sud del Paese, costringendo il governo centrale a rimanere arroccato a Mogadiscio. Le azioni eclatanti a sua firma di fatto non si sono mai arrestate, sconfinando in modo sempre più frequente anche nelle vicine Kenya, Uganda ed Etiopia. Un’ascesa violenta, certificata dall’inquietante primato ottenuto nel 2016, anno in cui Al Shabaab è stato il gruppo terroristico più attivo in Africa con 4.281 persone uccise.
I problemi del presidente “Farmajo”
La strage del 14 ottobre sarà commemorata con tre giorni di lutto nazionale annunciati per i prossimi giorni dal presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, meglio conosciuto come “Farmajo”, doppia cittadinanza somala e statunitense, nominato nuovo presidente nel febbraio scorso nelle prime elezioni libere del Paese vinte contro l’uscente Sheikh Mohamud. Pochi giorni dopo essersi insediato, il presidente ha promesso che il suo esercito, con il sostegno degli Stati Uniti e dell’Unione Africana, sconfiggerà definitivamente Al Shabaab nell’arco dei prossimi due anni.
Difficile però credere che “Farmajo” manterrà questa promessa. La scorsa settimana si sono dimessi dal suo governo sia il ministro della Difesa, Abdirashid Abdullahi Mohamed, che il capo dell’esercito, il generale Mohamed Ahmed Jimale. Le falle nel sistema della sicurezza su cui l’esecutivo ha investito per blindare la capitale permettono sistematicamente ai jihadisti di raggiungere facilmente il centro della città con veicoli contenenti a bordo migliaia di chili di esplosivi. Senza dimenticare che il Paese è sull’orlo della carestia nonostante gli ingenti finanziamenti e aiuti umanitari che continuano a piovere sulla Somalia da Nazioni Unite e Unione Europea.
Le falle nel sistema della sicurezza permettono ai jihadisti di raggiungere facilmente Mogadiscio con veicoli contenenti a bordo migliaia di chili di esplosivi
Cosa rischiano gli USA?
Più che sulla partnership militare con i contingenti militari della missione AMISOM (African Union Mission to Somalia, 22mila effettivi) dell’Unione Africana, il presidente somalo confida nel rinnovato impegno garantito a sostegno del suo governo dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il quale mesi fa ha approvato il lancio di nuove operazioni nelle aree critiche del Paese, compresi raid aerei con droni su cui gli USA puntano fortemente per eliminare uno dopo l’altro i capi di Al Shabaab.
All’inizio di quest’anno, la Casa Bianca ha allentato le regole d’ingaggio che disciplinano l’operato delle squadre d’élite delle forze speciali impegnate nel Paese, autorizzando di fatto ogni tipo di azione nelle zone più instabili definitive “area of active hostilities”. Il Pentagono si rifiuta di comunicare quanti siano esattamente i soldati americani impiegati in Somalia. Almeno nell’immediato è però improbabile aspettarsi l’invio di nuovi effettivi da parte dell’Amministrazione USA a seguito dell’ultimo attentato di Mogadiscio. Per il momento la linea dettata dal segretario alla Difesa James Mattis in Somalia, così come negli altri Stati africani in cui gli Stati Uniti schierano contingenti militari sotto il coordinamento di AFRICOM (U.S. Africa Command), resta quella di continuare a fornire addestramento e attrezzature militari alle forze alleate e, soprattutto, raccogliere sul terreno informazioni di intelligence necessarie per la conduzione di attacchi di precisione.
È una strategia dei piccoli passi che non garantisce agli USA di evitare di subire perdite. Nel maggio scorso un navy seal è rimasto ucciso e altri due ufficiali americani sono stati feriti in scontri a fuoco con miliziani islamisti a ovest di Mogadiscio. Si è trattato del primo militare americano caduto in Somalia dai primi anni Novanta.
* Foto Martin Pope
Rocco Bellantone
Caporedattore di Babilon, giornalista professionista, classe 1983. Collabora con le riviste Nigrizia e La Nuova Ecologia di Legambiente. Si occupa di Africa, immigrazione e ambiente.
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