Per una volta l’Italia è stata più grande della Cina. Ai Mondiali di calcio femminile le Azzurre hanno battuto la formazione asiatica, che rappresenta una Nazione con un rapporto poco naturale e molto politico con il pallone. La diplomazia del calcio è uno degli strumenti di smart power che la Cina usa per riversare liquidità in giro per il mondo, e trarne la somma del soft power e dei ricavi economici che derivano da quegli investimenti.
La strategia cinese segue due direttrici principali che intersecano, nel grande disegno complessivo, le traiettorie marittime e terrestri delle Nuove Vie della Seta: la prima è quella degli investimenti nei maggiori club europei di calcio; la seconda è la cosiddetta Stadium Diplomacy, realizzata soprattutto nelle aree più povere come Africa e America Latina. Investimenti che hanno l’obiettivo principale di rafforzare la presenza cinese nei singoli Stati, per stringere accordi che vanno anche molto oltre il business calcistico.
Tra il 2014 e il 2017 la Cina ha portato più di 2 miliardi e mezzo di euro in squadre di calcio europee (tra le quali i due club di Milano, Milan e Inter), in certi casi si è trattato di acquisizioni di quote minoritarie, in altri di veri e propri cambi di proprietà. Ma da circa due anni Pechino ha fermato il fiume di denaro che inondava il continente decidendo di inserire gli investimenti nei club calcistici europei in una lista di settori ad accesso limitato. Forse perché considerati poco remunerativi. L’idea alla base del progetto cinese, infatti, è quella di sfruttare il potere d’attrazione del calcio per allargare la sua sfera d’influenza sul mondo occidentale. E il calcio è – o forse era – visto come il vettore perfetto: la diffusione nel tessuto sociale europeo, la natura popolare e l’enorme indotto che questo sport genera ne fanno un vettore perfetto per veicolare qualsiasi messaggio, brand, o investimento che sia. Almeno in teoria. È probabile, infatti, che l’impossibilità di investire liberamente sul Vecchio Continente – soprattutto per il Fair Play Finanziario della Uefa – abbia scoraggiato Pechino, costringendola a rivedere le proprie priorità.
Molto battuta, invece, la pista della Stadium Diplomacy. «Il soft power cinese nel calcio interessa decine di paesi in America Latina, Africa, Asia e tra gli Stati Caraibici, attraverso quella che chiamiamo Stadium Diplomacy». In queste poche parole Simon Chadwick, esperto di geopolitica dello sport in Asia e professore di “Sport Enterprise” alla Salford University, racchiude tutto il significato degli investimenti cinesi nel resto del mondo. L’impegno economico di Pechino nel continente africano è conosciuto e riconosciuto da tempo ormai: da oltre nove anni consecutivi la Cina è il maggior partner commerciale, con la costruzione di strutture e infrastrutture disseminate in tutta l’Africa. E lo scorso settembre, al Forum sulla cooperazione Cina-Africa, Pechino aveva promesso altri 60 miliardi di dollari in tre anni.
Dall’inizio del nuovo millennio una buona fetta degli investimenti di Pechino in Africa riguardano stadi e strutture sportive, che in alcuni casi sono veri e propri regali. Perché il vantaggio che ne trae la Cina, ovviamente, si legge sotto altre voci: l’ex impero celeste ottiene spesso il via libera all’approvvigionamento di materie prime di cui ha bisogno. Spesso riesce anche ad impiegare la manodopera in eccesso che ha in casa e ad esportare la propria cultura aprendo Istituti Confucio sul territorio di altri Stati. In questo modo, la Cina può gettare le basi per accordi, anche bilaterali. Come nel caso dell’Angola, con cui da quasi vent’anni Pechino ha istituito una relazione infrastructure-for-oil che oggi porta nelle casse dell’ex colonia portoghese 27 miliardi di dollari derivanti dall’export di petrolio.
La Stadium Diplomacy supera i confini dell’Africa. Gli investimenti cinesi nelle strutture sportive interessano anche l’America Latina, i Caraibi e le isole del Pacifico del Sud, dove però l’interesse di Pechino è strategico più che puramente economico. Lo spiegano perfettamente i recenti sviluppi nelle relazioni con la Costa Rica. Fino al 2007 la piccola Nazione che affaccia sul Mar dei Caraibi ha avuto relazioni diplomatiche con Taipei, ma la situazione è cambiata da quando Pechino e San Josè hanno trovato un accordo commerciale da 300 milioni di dollari che ha portato anche la creazione di un Istituto Confucio e l’Estadio Nacional de Costa Rica. Un impianto da 35mila posti a sedere costruito dalla compagnia cinese Anhui Foreign Economic Construction che portò nel cantiere 800 operai cinesi. Da quel momento la comunità cinese nel Paese centroamericano si è ingrandita fino a diventare la comunità straniera più importante dello Stato. Le relazioni cinesi con i Paesi di America Latina, Caraibi e isole del Sud Pacifico hanno quasi sempre tratti simili a quelli costruiti con la Costa Rica. Solo in casi particolari – ad esempio con il Venezuela – Pechino ha interessi più strettamente economici. Il più delle volte il calcio diventa un mezzo per veicolare il soft power cinese e costruire rapporti bilaterali.
Photo: GBTimes
Alessandro Cappelli
Giornalista professionista appassionato di politica internazionale e sport. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Orientale di Napoli con una tesi in Storia dell'America Latina. Collabora con Rivista Undici e Linkiesta. Ha scritto il libro "STAND UP, SPEAK OUT. Storia e storie di sport e diritti civili negli Usa".
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