Del principe saudita Osama Bin Laden, gli americani sapevano tutto sin dai primi anni Ottanta, comprese ideologia e intenzioni bellicose. Del resto, l’intero clan dei Bin Laden era attenzionato da CIA ed FBI a causa dei loro affari nel settore delle costruzioni in America, e in particolare degli investimenti nel gruppo Carlyle, tra i primi venti appaltatori della difesa militare statunitense all’epoca di Bush senior. Il padre Mohammed aveva creato negli anni Trenta una holding con connessioni internazionali che operava nell’ambito delle infrastrutture e delle telecomunicazioni, e che aveva provveduto persino al restauro della moschea di Al Aqsa, a Gerusalemme. Col tempo, aveva delegato ai ventidue figli la gestione delle numerose filiali della conglomerata Saudi Binladin Group (SBG), divenuta negli anni Novanta un colosso da miliardi di dollari.
Alla morte del capofamiglia nel 1967, a Osama era spettata un’eredità di circa 300 milioni di dollari. Osama li aveva sfruttati per mettere su un’impresa di costruzioni e una piccola flotta di pescherecci in Africa, un’agenzia di viaggi in Pakistan e, ancora, una compagnia di trasporti. Nel 1991, però, a Osama viene tolta la cittadinanza saudita: convocato dalla famiglia reale perché si è schierato apertamente contro la presenza di truppe americane sul territorio iracheno, viene costretto all’esilio. I parenti stessi lo ripudiano, visto che simili dichiarazioni non giovano agli affari di famiglia e agli appalti col Pentagono. È allora che Osama parte per il Sudan e poi per l’Afghanistan, dove prosegue la sua radicalizzazione. Nel 1993, intanto, Riad ha emesso contro di lui un ordine permanente di arresto, consapevole della sua pericolosità. Il «dossier Bin Laden» finisce anche sulla scrivania dell’intelligence americana. Che vuole capire di più del personaggio, a seguito delle indagini internazionali sui responsabili dell’attentato appena occorso a New York City.
È il 26 febbraio 1993 quando un furgone esplode nel parcheggio sotterraneo della Torre Nord del World Trade Center provocando sei morti e più di mille feriti. L’attentato è organizzato da un commando di terroristi islamici, tra cui figura il kuwaitiano Ramzi Yusuf, capofila di un gruppo di sette uomini, arrestato poi nel novembre del 1997: gli attentatori hanno impiegato una miscela di esplosivo e gas idrogeno dal peso di circa 680 kg, con l’intenzione di causare l’implosione di una delle due Torri Gemelle, e far poi collassare anche l’altra con un effetto domino. Si tratta del più grosso ordigno artigianale mai costruito. Le strutture portanti del grattacielo tengono, ma per l’FBI è un colpo durissimo.
La mente dietro l’attentato viene indicata nello sceicco cieco Omar Abdel Rahman, religioso egiziano leader di Jamaat al Islamiya – il gruppo estremista che uccise il presidente egiziano Sadat al Cairo nel 1981 – e fonte d’ispirazione per terroristi islamisti di tre generazioni, fino alla morte (avvenuta in un carcere californiano nel 2017). L’uomo è noto agli ambienti dell’intelligence americana, che monitora (e talvolta uccide) i figli di Rahman da decenni. Uno di questi, Asim, è da tempo in contatto con Osama Bin Laden.
Tra le altre cose che l’intelligence statunitense sa, c’è anche un’informazione risalente al 1982, cioè due anni dopo l’invasione sovietica in Afghanistan. Riguarda un islamista giordano di origine palestinese, Abdallah Azzem. Il quale, formatosi alla scuola dei Fratelli musulmani, decide di prendere parte al conflitto, incoraggiato e abbondantemente finanziato dal governo dell’Arabia Saudita. Azzem fino a quel momento è un professore di teologia all’Università di Medina, dove insegna i principi del Jihad riprendendo il lavoro di vari ideologi dell’islamismo. Tra le figure che Azzem cita spesso nei suoi sermoni, c’è il fondatore della Fratellanza musulmana Hassan Al-Banna (1906-1949), del quale è solito dire: «Il suo assassinio ha permesso di vivificare diverse generazioni di musulmani». Il predicatore palestinese è uomo carismatico e i suoi appelli alla guerra santa riescono ad attrarre nel conflitto afghano centinaia di giovani: algerini, yemeniti, sauditi, giordani ed egiziani. Non solo, grazie alle videocassette di propaganda che arrivano fino in Occidente centinaia di mujaheddin, provenienti soprattutto dai Balcani e dal resto dell’Europa, giungono in Pakistan per addestrarsi, concentrandosi a Peshawar.
Abdallah Azzem nel frattempo ha fondato nel 1984 il gruppo islamista Maktab al-Khidamat al-Mujahidin al-Arab (MAK), incaricato di raccogliere fondi e combattenti impegnati nel Jihad contro l’Unione Sovietica: «Voi non state combattendo per l’Afghanistan, per denaro o per la gloria, ma per Allah» è solito affermare. Il MAK è il contenitore dove troveranno posto le idee incendiarie dei Fratelli musulmani e dei salafiti: uno su tutti, il ventenne Osama Bin Laden. Il rampollo della ricca famiglia saudita riesce a raccogliere fondi per il MAK come nessun altro, e anche per questo si guadagna presto la stima di Abdallah Azzem e dei combattenti stranieri. Osama Bin Laden e Abdallah Azzem formano fino al 1987 un’accoppiata senza pari nella galassia islamista, che cresce progressivamente fino a dare alla luce una nuova organizzazione, più dinamica e operativa dal MAK: la chiamano Al Qaeda, cioè «la Base», ed è destinata a un successo senza pari. A spiegare l’origine del nome sarà lo stesso Bin Laden in un’intervista ad Al Jazeera nel 2001: «Il nome di Al Qaeda fu stabilito molto tempo fa per caso. Il defunto Abu Ubayda al-Banshiri creò dei campi di addestramento per i nostri mujaheddin contro il terrorismo sovietico. Usavamo chiamare i campi di addestramento “la base”. Il nome rimase». Secondo l’ex ministro degli Esteri britannico Robin Cook, però, l’origine sarebbe un’altra: «Per quanto ne so io, Al Qaeda era originariamente il nome di un data-base del governo USA, con i nomi di migliaia di mujaheddin arruolati dalla CIA per combattere contro i sovietici in Afghanistan».
In effetti, Al Qaeda nasce nel contesto del Jihad contro l’Unione Sovietica. Inizialmente, infatti, è un’organizzazione parallela alle attività di sostegno statunitense alla guerra civile afghana che vede la CIA sostenere il movimento guerrigliero dei mujaheddin contro la Repubblica Democratica dell’Afghanistan, che ha preso il potere col sostegno di Mosca nel 1978. Mentre la guerra contro i sovietici volge ormai al termine, la coppia Azzem-Bin Laden entra in crisi: il saudita non concorda con il tatticismo e la lentezza operativa del suo maestro, e pensa di dover comandare da solo per condurre Al Qaeda verso nuovi orizzonti. Azzem muore due anni dopo, nel 1989, all’età di 48 anni; è insieme a due dei suoi figli quando la sua macchina viene fatta esplodere. Anche se non si riuscirà mai a identificare con certezza il mandante della strage, tutti gli indizi portano al suo ex allievo e sodale.
Sta di fatto che Osama Bin Laden da quel giorno è il leader incontrastato della nascente Al Qaeda. Benchè di Abdallah Azzem si parlerà pochissimo in seguito, è stato il primo musulmano sunnita ad aver diffuso la dottrina del martirio, pubblicando una serie di articoli nei quali glorifica gli attacchi suicidi. Un lascito che diverrà il principale strumento di lotta dei terroristi islamici di lì in avanti, e da cui Bin Laden stesso non si discosterà più: «È auspicabile che il musulmano combatta, anche se è solo, e anche se va incontro a morte certa, se in ciò vi è un vantaggio per i musulmani. È auspicabile che il musulmano compia attacchi suicidi pur sapendo che morirà, se in ciò vi è un vantaggio per i musulmani» ripete spesso.
Tratto da libro
I semi del Male
di Stefano Piazza e Luciano Tirinnanzi
Stefano Piazza
Giornalista, attivo nel settore della sicurezza, collaboratore di Panorama e Libero Quotidiano. Autore di numerosi saggi. Esperto di Medio Oriente e terrorismo. Cura il blog personale Confessioni elvetiche.
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