Difficile dire se abbia ragione la giornalista Anna Zafesova, che in questo volume sostiene come le montanti proteste che vanno in scena da mesi tra Vladivostok e San Pietroburgo siano destinate a picconare il potere sinora incontrastato di Vladimir Putin. Oppure se abbia ragione l’ambasciatore Sergio Romano, il quale sostiene come l’opinione pubblica russa sia ancora fondamentalmente dalla parte dell’uomo forte di Mosca.
Di certo, le nuove generazioni russe non hanno conosciuto altro che l’attuale presidente e la stessa società post sovietica si è riconosciuta, forse persino immedesimata in lui, perché orfana di un’ideologia che sostituisse settant’anni di pensiero unico. Al tramontare del comunismo della steppa, si è fatto avanti soltanto un uomo che mischiando coraggio e strategia, sicurezza e burocrazia, ha frullato insieme questi elementi e ottenuto un cocktail che ha fatto digerire a tutti: quello di uno Stato autoritario con un grande potere, sia pur sovrastimato rispetto alle sue reali capacità. Anzitutto economiche.
Ed è proprio questo il punto centrale della vicenda che si lega all’eredità di Vladimir Putin, l’uomo più popolare di Russia dai tempi di Yuri Gagarin. Nessuno come l’ex funzionario del Kgb ha saputo innescare nel popolo un senso d’identità e orgoglio nazionale che hanno ben funzionato nei momenti più difficili di questo grande Paese. Un Paese che, tuttavia, oggi mostra alcune preoccupanti derive, non soltanto in ordine alla libertà di espressione e di diritti civili, ma anche e soprattutto in relazione alle possibilità di crescita e alle prospettive di sviluppo.
Il crollo dell’economia russa registrato nel 2020 è stato il più alto dal 2009. Ma, anche se la pandemia ha colpito seriamente l’economia di Mosca, la ripresa è stata comunque agganciata e dovrebbe evitare di condurre la Russia verso un declino inesorabile. Anche se, a dire il vero, le misure annunciate lo scorso aprile dal presidente in persona si sono rivelate piuttosto modeste, al punto da poter essere coperte con i fondi già disponibili nelle casse dello Stato. Nessun grande investimento è stato autorizzato o programmato. Semmai questa scelta si è rivelata una mossa il cui obiettivo evidente e principale, per ammissione stessa di Putin, «è garantire la crescita dei redditi reali dei cittadini».
Come a dire che anche il Cremlino ha capito che, rispetto agli scorsi anni, oggi c’è un gran bisogno anzitutto di consenso. Segno che l’idillio tra il grande leader e il suo popolo è quantomeno diminuito. L’economia russa, infatti, ha potuto resistere al primo anno della crisi sanitaria grazie alla decisione di non imporre un lockdown autunnale. E questo ha permesso di attenuare la perdita verticale di consenso e di capacità di spesa dei cittadini russi, puntando alla stabilità. Ma ha anche evitato di strutturare un discorso di rilancio dell’economia, necessario e soprattutto comune a tutte le grandi potenze.
Quanto opportuna sia stata questa scelta, è discutibile. Vladimir Putin sa che la Russia è in grado di sostenere l’isolamento e le varie forme di carestia: la resilienza alle sanzioni economiche occidentali ne è la miglior dimostrazione. Ma a tutto c’è un prezzo. Questa scelta ha generato inevitabilmente sta- gnazione e malcontento, due affluenti che portano a ingrossare quel grande fiume carsico dell’opposizione, che scorre da tempo sotto le certezze del consenso di cui godono il Cremlino e il suo principale azionista.
Inoltre, la mono dipendenza dell’economia russa dagli idrocarburi ne fa comunque un Paese a rischio, specialmente nel momento in cui le nuove energie e tecnologie andranno a sostituire progressivamente la centralità del gas e del petrolio nell’economia contemporanea. Anche se ci vorrà ancora molto tempo, è evidente che da parte di Mosca manca la volontà – o la possibilità – di diversificare le risorse in vista del domani. Una scelta che tuttavia appare imprescindibile per sostenere il futuro. Persino l’Arabia Saudita – che vanta la più grande azienda petrolifera al mondo – l’ha intuito e difatti ha condotto la casa reale a impostare una strategia completamente nuova: una visione per affrancarsi dalla dipendenza di un solo settore, da realizzare nel giro di un quindicennio. E quindici anni sono anche quelli che restano al presidente russo per rimanere in sella al suo Paese. Abbastanza perché Putin non debba temere imminenti defenestrazioni in stile Yanukovich. Ma assai troppi (o troppo pochi) per pensare che nulla accadrà se qualcosa nel frattempo non cambia. Nel nuovo scenario globale, la discontinuità è un valore e il primo a doverlo riconoscere dovrebbe essere proprio colui il quale ha portato la Russia da un sistema chiuso e da una visione tetragona della politica, a una versione più moderna e aperturista della Russia moderna. Ma forse non abbastanza moderna da poterla definire anche contemporanea.
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Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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