La condizione delle domestiche straniere in Libano peggiora nettamente con il montare della crisi economica, mettendo in risalto il tema della kafala nel dibattito pubblico libanese.
HAZMIEH ROAD, BEIRUT
Dalle ultime settimane di giugno Hazmieh Road, la strada antistante al consolato etiope di Beirut, si è riempita di donne. Sarebbero circa un centinaio le domestiche etiopi abbandonate dai propri “padroni” davanti al consolato, sfrattate senza possibilità di tornare nel proprio Paese, né di permettersi un’abitazione o un’occupazione alternativa. Molte di queste donne sono rimaste vari giorni in strada, salvo poi essere trasferite da una ONG in un centro di accoglienza. Si tratta di una classe di lavoratrici che vivono nell’ombra, senza alcun diritto e alcuna rappresentazione, fuori dalla legislazione del lavoro libanese e dentro, invece, al losco sistema della kafala, che tradotto significa “sponsorizzazione“, il quale regola i lavoratori migranti nel Paese dei cedri.
Gli ultimi sviluppi della condizione delle domestiche etiopi sono legati a doppio filo alla crisi economica che attanaglia il Libano, inasprita dalla pandemia da Covid-19. Quest’ultima è stata spesso descritta come un acceleratore, soprattutto per quanto riguarda l’approfondimento delle disuguaglianze socioeconomiche: questo è tanto più vero nel piccolo Libano, nel quale la classe media sta scomparendo rapidamente, lasciando spazio a una fetta sempre più ampia di poveri, schiacciati dalla montante crisi economica, dall’enorme svalutazione della lira libanese e dal conseguente aumento vertiginoso dell’inflazione. In questo contesto un numero sempre più grande di famiglie non può più permettersi di mantenere una domestica e, di conseguenza, procede allo sfratto, con l’aiuto dell’assoluta mancanza di diritti delle lavoratrici stesse.
Fig. 1 – Due domestiche etiopi licenziate dal loro impiego fuori dal consolato etiope a Beirut, 24 giugno 2020
LA TRATTA DELLE DOMESTICHE
La campagna di reclutamento delle domestiche inizia già nel loro Paese d’origine, dove l’emigrazione verso il Libano e i Paesi Arabi del Golfo viene dipinta come soluzione a tutti i problemi finanziari. Secondo Amnesty International si tratta in prevalenza di Etiopia (150mila lavoratrici nel 2018), Filippine (18mila), Bangladesh (10mila) e Sri Lanka (5mila), per un totale di circa 250mila lavoratrici. Nonostante all’apparenza i criteri di selezione delle future domestiche siano severi, la realtà è ben diversa e, posto che le candidate abbiano meno di cinquant’anni, non siano incinte e godano di buona salute, la mancata assunzione è un’eventualità molto rara, poiché ogni ingaggio è fonte di profitto per le agenzie di reclutamento. Queste, infatti, incassano l’interezza dei primi tre salari mensili delle domestiche, pressappoco $100, oltre a una tassa iniziale pagata dalle famiglie di accoglienza che si aggira attorno ai $2000.
I contratti, di norma, hanno una validità di tre anni, al termine dei quali la domestica è costretta a tornare al Paese d’origine, dove, eventualmente, può stipulare un nuovo accordo, remunerando nuovamente l’agenzia. Queste clausole sono riportate nel contratto iniziale, che, però, è redatto in inglese, lingua sconosciuta dalle future governanti, alle quali è fornita solo una traduzione approssimativa. Le promesse fatte alle donne, che comprendono diritti, accoglienza da parte delle famiglie e una paga sufficiente a inviare del denaro a casa, vengono completamente disattese, incatenandole a un sistema totalmente ingiusto e privo di regole, una tratta di esseri umani ufficialmente non riconosciuta come tale.
Fig. 2 – Hazmieh Road, la strada dove si trova il consolato etiope a Beirut, si è riempita di domestiche etiopi licenziate dal proprio lavoro
IL SISTEMA DELLA KAFALA
Il sistema della kafala è un insieme di decreti, leggi e pratiche consuetudinarie che regolano la residenza e il lavoro dei lavoratori migranti in Libano. La kafala prevede la necessità, per i lavoratori migranti, di avere uno sponsor nel Paese. Nel caso delle governanti, quest’ultimo appare più come un padrone: le donne sono costrette a vivere con la famiglia per cui lavorano, senza orari fissati e con condizioni di vita spesso dure. Alcune donne non escono dalle case in cui lavorano per anni, vengono nutrite con gli scarti dei pasti della famiglia, non hanno alcuna libertà e sono spesso vittime di abusi di vario tipo. Anche a livello giuridico le domestiche sono completamente escluse dalla legislazione del lavoro libanese: di conseguenza non godono di diritti fondamentali quali uno stipendio minimo, periodi di congedo, giorni di riposo settimanali e una regolazione dell’orario di lavoro.
Il posizionamento di queste donne al di fuori di qualsivoglia cornice legale permette ai loro “padroni” di sfruttarle senza pericolo di incorrere in procedimenti legali, legittimando, o quantomeno autorizzando, abusi e violenze di ogni genere. Inoltre le famiglie normalmente confiscano il passaporto delle domestiche, limitando al massimo la loro libertà individuale. Sebbene questa pratica sia vietata dalla legge libanese, di fatto è incoraggiata dalla Sicurezza Generale, che è solita riconsegnare il passaporto al “padrone” all’arrivo della domestica in Libano. Il passaporto viene utilizzato in seguito come ricatto: se la famiglia non è soddisfatta della domestica, questa non riavrà il suo documento o, peggio, il contratto verrà terminato, rendendo la donna un individuo illegalmente immigrato in Libano perché non più protetto da uno sponsor. Si tratta della diretta violazione di ogni diritto di queste lavoratrici dietro una facciata, quella dell’aiuto a povere donne straniere, che permette alle famiglie libanesi di non riconoscere la kafala come quello che è, un sistema di schiavitù contemporaneo.
Fig. 3 – Una domestica proveniente dal Bangladesh intervistata nelle strade di Beirut, 23 febbraio 2020
LA KAFALA AL CENTRO DEL DIBATTITO
Il sistema della kafala è stato messo in discussione, a partire almeno dal 2014, soprattutto grazie alle azioni di advocacy portate avanti da ONG internazionali quali Amnesty International, Human Rights Watch e, più recentemente, alla preminenza del movimento Black Lives Matter. Anche le proteste scoppiate l’ottobre scorso hanno visto la presenza di gruppi locali reclamanti l’abolizione della kafala, come This is Lebanon e Domestic Workers’ Union (DWU). Le voci si sono notevolmente innalzate dopo che il 5 novembre scorso sette domestiche etiopi decedute sono state trasportate da un volo di Ethiopian Airlines fino ad Addis Abeba: secondo Human Rights Watch in Libano almeno due domestiche straniere si tolgono la vita ogni settimana a causa delle pessime condizioni di vita.
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La posizione ufficiale del Governo libanese mira al mantenimento del sistema della kafala, necessario ad avere un responsabile per il lavoratore immigrato in Libano. La stessa DWU, seppur supportata da oltre un centinaio di organizzazioni non governative, oltre all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), è stata dichiarata illegale dal Ministero del Lavoro libanese.
Gli ultimi sviluppi interni al Libano, con la montante crisi economica, potrebbero spingere più famiglie a rinunciare all’aiuto domestico. Questo potrebbe diminuire l’impiego del sistema della kafala nel medio termine, ma non lo eliminerebbe, né cancellerebbe gli assunti razzisti sottesi. Inoltre con tutta probabilità metterebbe a rischio le lavoratrici già presenti in Libano, con un possibile aumento degli sfratti: molte donne straniere che lavoravano come domestiche si sono rivolte alla prostituzione per sostentarsi.
Il sistema della kafala non scomparirà a breve, soprattutto vista la mancanza di volontà del Governo libanese ad agire. Tuttavia la nuova preminenza nel dibattito pubblico libanese potrebbe, nel lungo termine, portare a una maggiore consapevolezza della questione, utile a sensibilizzare la società libanese.
Immagine di copertina: Photo by Blue Ox Studio is licensed under CC0
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