Quando, negli anni a venire, si guarderà con lo sguardo freddo e distante della storia agli eventi che contraddistinsero i fatti avvenuti tra la seconda metà del 1992 e l’estate del 1993, si accetterà probabilmente la vera ragione per cui sono morti Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi: l’indagine su Mafia e Appalti condotta dai carabinieri del ROS.
Una delle vicende più cupe e al contempo rivelatrici dell’animus italico – stretto tra segreti di Stato e condizionamenti della mafia, tra soldi e potere – si fa improvvisamente chiara, quando leggiamo quell’indagine da cui tutto ha avuto origine e che ha portato i suoi destinatari, i giudici Falcone e Borsellino, alla morte e i suoi autori, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, a un ventennio di processi a loro carico.
In quest’Italia, infatti, spesso si vogliono ammantare di misteriosi enigmi e ridde di complotti, anche le verità più palesi. Una di queste verità è scritta nella sentenza della Corte d’Assise di Catania del 22 aprile 2006, dove si afferma, a proposito del movente della strage di via D’Amelio: «la possibilità che il dottor Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia e, soprattutto, la pericolosità delle indagini che egli avrebbe potuto svolgere in materia di mafia e appalti».
Ma andiamo con ordine. Ben prima che la Procura di Milano avviasse l’inchiesta che passerà alla storia come Mani Pulite nei primi mesi del 1992, già il 20 febbraio 1991 il ROS depositò l’informativa Mafia e Appalti, relativa alla prima parte delle indagini sulle connessioni tra politici, imprenditori e mafiosi, dove si rivelava l’esistenza di un comitato d’affari illegale e si facevano i nomi di società e persone coinvolte.
Falcone e l’importanza di depositare Mafia e Appalti
Il deposito di Mafia e Appalti fu voluto espressamente da Giovanni Falcone, il quale all’epoca stava passando dalla Procura di Palermo alla Direzione degli Affari Penali del Dipartimento di Giustizia capitolino: Falcone si raccomandò con i carabinieri del ROS di depositare subito quelle carte, poiché ritenute cruciali per spiegare le connessioni tra mafia e politica. Lo ricordò lo stesso giudice al convegno palermitano del 14 e 15 marzo 1992, a Castello Utveggio: «la mafia è entrata in borsa» disse due mesi prima di saltare in aria.
Quelle carte “scottavano” al punto che divennero da subito motivo d’imbarazzo e indecisione da parte della Procura di Palermo. Che inizialmente, sulla base di Mafia e Appalti emise solo 5 provvedimenti di custodia cautelare per associazione a delinquere di stampo mafioso (7 luglio 1991), diversamente dai 44 che suggeriva l’informativa. Giovanni Falcone, nei suoi diari, dirà in proposito: «Sono scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici».
Non solo. Agli avvocati difensori dei 5 arrestati fu indebitamente e insolitamente consegnata l’intera informativa del ROS (890 pagine più 67 di appendice, dunque comprensiva di tutte le 44 persone oggetto d’indagine), anziché stralci dei soli passaggi relativi alle loro posizioni. Con ciò fu svelata l’architettura investigativa complessiva, emersero i nomi di tutti i soggetti nel mirino del ROS e si vanificò sostanzialmente l’intera indagine. Dopodiché inizia a scorrere il sangue.
Il primo a morire fu il deputato andreottiano Salvo Lima, il 12 marzo 1992, l’uomo “delle cosche” che non poteva più garantire per esse. Poi, il 4 aprile successivo, toccò al maresciallo Giuliano Guazzelli, ucciso perché – su esplicita richiesta – rifiutò di stemperare le accuse contro Angelo Siino, uno dei 5 arrestati di Mafia e Appalti e ritenuto dal ROS «l’anello di congiunzione tra mafia e imprenditoria». Quindi, come noto, il 23 maggio morì lo stesso Falcone e il 19 luglio 1992 la stessa sorte toccò anche a Paolo Borsellino.
Borsellino e le confidenze a Ingroia
Borsellino, il 25 giugno del ’92, volle incontrare segretamente negli uffici del ROS gli autori dell’informativa, il colonnello Mori e il capitano De Donno, riferendo loro che l’inchiesta Mafia e Appalti era “il salto di qualità” investigativo che avrebbe permesso di individuare sia i responsabili della corruttela siciliana sia gli autori della morte di Falcone. Borsellino indicò proprio in Mafia e Appalti la causa della morte dell’amico giudice e chiese il massimo riserbo sull’incontro, in particolare nei confronti dei colleghi della Procura di Palermo, per timore di fughe di notizie.
Il giudice Antonio Ingroia, intimo di Borsellino, confermò alla Corte d’Assise di Caltanissetta che Borsellino gli aveva confidato di essere convinto che, attraverso gli appunti di Falcone relativi all’inchiesta Mafia e Appalti, si sarebbero potuti individuare i moventi della strage di Capaci. Fatto confermato anche da Giovanni Brusca, autore materiale della strage, il quale nel 1999 dichiarò alla DDA di Palermo che i vertici di Cosa Nostra erano «preoccupati delle indagini sugli appalti».
L’archiviazione di Mafia e Appalti
Il fatto più inquietante avvenne però il 20 luglio, il giorno dopo la morte di Borsellino quando, non ancora allestita la camera ardente per le vittime di via d’Amelio, la Procura di Palermo depositò inspiegabilmente la richiesta di archiviazione dell’inchiesta Mafia e Appalti, nella parte in cui ci si riferiva a imprenditori e politici. Il decreto di archiviazione arrivò il 14 agosto.
Anche in seguito a quell’atto, la frattura all’interno della Procura di Palermo e tra questa e il ROS, sembra non essersi mai più sanata. Così come non si rimarginano le ferite aperte dalle stragi mafiose del 1992, che hanno originato sospetti e liti di cui ancor oggi vediamo gli effetti, non solo nelle aule di tribunale.
Vito Ciancimino e la trattativa
Vale la pena ricordare anche la cosiddetta “Trattativa Stato-Mafia” che gira intorno alla persona dell’ex sindaco di Palermo nonché “uomo delle cosche”, Vito Ciancimino. Tutto ebbe inizio il 5 agosto 1992, dopo le stragi di mafia. Ciancimino fu avvicinato dal ROS perché collaborasse alle indagini Mafia e Appalti, visto che rivestiva il ruolo di cerniera tra il mondo politico-imprenditoriale e quello mafioso. Ed, effettivamente, il sindaco consegnò qualcosa ai militari.
Ma non il famigerato “papello”, bensì il libro Le Mafie redatto dallo stesso Vito, dal quale si evinceva la sostanziale convergenza tra la tesi dell’inchiesta Mafia e Appalti e la realtà di Palermo. Su sua espressa richiesta, Ciancimino chiese ripetutamente – ma senza esito – di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare Antimafia, dove all’epoca sedeva Luciano Violante.
Violante fu informato dei contatti con Ciancimino dal colonnello Mori il 20 ottobre 1992, nel giorno della sua audizione all’Antimafia. Una settimana dopo, Mori consegnò al presidente Violante una copia del libro Le Mafie che, per la verità, a detta di entrambi non conteneva fatti poi così rilevanti.
Un mese prima, Mori discusse dell’importanza dell’attività investigativa relativa agli appalti anche con Pietro Grasso, all’epoca consulente della Commissione Parlamentare Antimafia. E poi con Giancarlo Caselli, poco prima che divenisse Procuratore della Repubblica, fatto che avvenne il 15 gennaio, stesso giorno in cui fu arrestato Salvatore Riina, il capo di Cosa Nostra.
Conclusioni
I passaggi di cui sopra sono tutti certificati e agli atti dei tribunali. Ma, in ultima istanza, essi saranno giudicati dal solo tribunale che conta davvero, quello della storia. Detto questo, è quantomeno bizzarro credere che vi sia stata una “trattativa segreta” ad opera del ROS finalizzata a favorire la mafia, quando erano stati proprio i carabinieri a svelare la connessione mafia-politica attraverso l’indagine Mafia e Appalti e quando di tali circostanze erano a conoscenza quantomeno i più alti rappresentanti delle istituzioni.
Davvero, nel 2018, pensiamo ancora che uomini dello Stato, carabinieri, abbiano ordito contro il nostro Paese per favorire Cosa Nostra? E a quale scopo, esattamente? Favorire Salvatore Riina? Ma Riina è o non è in carcere da vent’anni grazie alle indagini del ROS? E, da ultimo, è o non è vero che oggi la mafia fa affari miliardari con gli appalti, come scoprirono proprio i carabinieri e come pensava anche Giovanni Falcone?
Poiché la trattativa in sé non è un reato riconosciuto dalla legge. Poiché già il precedente processo Mori-Obinu era basato sulla medesima linea accusatoria e si è risolto con un’assoluzione, sia in primo che in secondo grado, non si capisce perché in questo caso sia invece stato usato un altro peso e un’altra misura.
Perché infatti al secondo si è arrivati a una condanna? Le cause sono due: o c’è presunzione di colpevolezza ideologica nei loro confronti, oppure è stato preso un granchio che una sentenza di appello dovrà risolvere. In entrambi i casi, resta il fatto che non riusciamo a venire fuori dalla nostra storia politica del secondo Novecento, dato che tante storie sembrano ancora ammantate da mistero quando mistero non c’è, e molti protagonisti di quel periodo burrascoso giudicati soltanto attraverso gli occhiali dell’ideologia o grazie a dei pregiudizi che nel tempo ne hanno distorto la realtà, oggettiva e personale.
Le istituzioni volte alla tutela della Repubblica – come forze speciali e intelligence – operano da sempre tra i chiaroscuri della legge, ma allo scopo preciso di tenere al sicuro il Paese e i suoi cittadini. Quello che ha fatto il gruppo di Mori intorno alla cattura di Totò Riina e alla banda dei corleonesi negli anni Novanta, è stato lottare con ogni mezzo per sconfiggere la mafia. E ci sono riusciti, ha vinto lo Stato, perché i cattivi sono tutti finiti in galera come meritavano. Questo è un fatto incontestabile.
Dove sta il reato in tutto ciò? Hanno male operato? Si sono accostati a personaggi di dubbio conto? Si sono presi delle libertà eccessive? Ma dov’è il confine? C’è un capitolo di legge che contempla il reato di trattativa? Non mi pare, e né la giurisprudenza né le precedenti sentenze hanno ancora fatto chiarezza su questo. E, del resto, il lavoro come quello degli infiltrati, delle trappole e delle messinscene fa parte del gioco di chi lavora in questi contesti borderline. L’importante è portare a casa il risultato e stare dalla parte giusta. «Minaccia a corpo politico dello Stato» oltretutto è un’espressione che, se accostata a certi personaggi come il generale Mori, fa rabbrividire, ben sapendo che pochi come lui possono essere considerati uomini di Stato dalla testa ai piedi. Solo una volta che sarà chiusa l’intera vicenda, cioè dopo l’appello che pare inevitabile, potremo finalmente mettere un punto a questa triste vicenda che sta assumendo i toni della farsa.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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