Donald Trump lo aveva detto tempo fa. «Mission accomplished. Abbiamo sconfitto lo Stato Islamico, quindi ci ritiriamo dalla Siria». Come già per Barack Obama, che ebbe l’onore di poter annunciare l’uccisione di Osama Bin Laden al mondo e fregiarsi di aver «sconfitto Al Qaeda», la storia si ripete. Donald Trump ha, infatti, dichiarato di aver eliminato il nemico numero uno dell’Occidente e non soltanto: Abu Bakr Al Baghdadi, il Califfo dello Stato Islamico. Il temuto leader dell’ISIS è stato ucciso questa notte in un raid americano a Barisha, nel governatorato di Idlib (nord della Siria), facendosi esplodere un attimo prima di essere catturato. Lo hanno confermato fonti americane, iraniane, siriane e irachene, e infine un test sul dna effettuato sul posto. Dunque, non c’è più alcun dubbio.
Per l’operazione, durata di poco meno di due ore, sono stati schierati oltre 70 uomini delle forze speciali, 8 elicotteri e una cospicua forza di supporto ormeggiata in un «porto sicuro» non meglio identificato. I soldati americani hanno agito da soli uccidendo numerosi terroristi, salvando 11 bambini e non riportando alcun morto o ferito in azione. Al Baghdadi, invece, fuggito in un tunnel dopo l’assalto al suo compound, si è ritrovato presto in un cul de sac e si è infine fatto saltare in aria insieme a tre bambini che si era portato con sé nella speranza di evitare la fine «da cane e da codardo», come lo stesso Trump lo ha definito, non risparmiando al terrorista epiteti infamanti e ricordando al mondo i suoi efferati crimini.
Questo episodio giustificherebbe e spiegherebbe il perché del ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria. «Siamo andati là per sconfiggere il terrorismo, questa era la mia unica ragione per stare in Siria» diceva già lo scorso dicembre il presidente americano. E a Trump va riconosciuto di aver mantenuto la parola. Eppure, anche se la decisione di «abbandonare» i curdi al loro destino potrebbe essere collegata alla certezza di avere Al Baghdadi in pugno, Trump ha smentito questa ricostruzione: «le due cose sono separate», aggiungendo poi «restiamo in Siria solo per difendere il petrolio, come avremmo dovuto fare anche in Iraq nel 2003, e non intendiamo frapporci tra curdi e turchi» ha dichiarato il presidente. Secondo alcune fonti, l’operazione della Turchia in Siria avrebbe al contrario ritardato il blitz contro Al Baghdadi. Ma non vi sono conferme.
La fine di una lunga ricerca
In ogni caso, Trump aveva bisogno dello scalpo del «terrorista numero uno» per emergere come vincente dall’impasse siriano. Qualcuno in patria aveva, infatti, avuto gioco facile nel criticarlo per un ritiro «frettoloso», quando ancora il capo dei terroristi islamici in Siria e Iraq era in libertà, e rilasciava discorsi audio e video (l’ultimo a settembre, preceduto da un video in aprile), beffandosi di una caccia all’uomo internazionale e di una taglia da 25 milioni di dollari. Pensare che c’era persino chi favoleggiava di aver visto fuggire Al Baghdadi in Libia. «Erano tre anni che lo cercavamo» ha sottolineato il presidente. Quando però un mese fa, secondo fonti d’intelligence, CIA e Pentagono avevano avuto la conferma della sua posizione, è iniziato il piano per catturarlo «vivo o morto», e due settimane dopo si è data luce verde sia al piano che prevedeva il ritiro dei soldati americani concertato con Ankara, ansiosa di sostituire Washington nelle aree a maggioranza curda, sia all’operazione per stanare il terrorista dell’ISIS. In quei giorni, infatti, Al Baghdadi era «costantemente monitorato», si apprende ora dalla Casa Bianca.
Sin dalle primarie per il partito repubblicano, e dunque ben prima di diventare il 45esimo presidente degli Stati Uniti (ma quando già Al Baghdadi era in piena attività), Trump aveva sempre dichiarato di volere il ritiro delle truppe americane da quei lontani teatri di guerra, non comprendendone il senso. Quando è diventato presidente, le sue direttive sono state chiare: «America first» significava per lui riportare negli Stati Uniti tutto e tutti, dalle fabbriche in Cina ai soldati in Medio Oriente. «Perché io conosco il popolo americano e so che è questo che vuole da un presidente». Come dargli torto? I sondaggi non lo hanno mai smentito.
La fine del Califfo per Donald Trump segna un risultato davvero molto importante: «something very big just happened» aveva twittato stanotte, evidentemente soddisfatto del blitz. Non un soldato è infatti deceduto o rimasto ferito, contrariamente al raid contro Osama Bin Laden e all’abbattimento di un elicottero in Pakistan nel maggio del 2011. Apparentemente, non una vittima civile è stata lasciata sul campo (salvo i tre bambini che Al Baghdadi avrebbe costretto a morire insieme a lui). E massima concordia è stata espressa dal presidente nei confronti di Russia, Turchia, Siria, Iraq e curdo-siriani, ai quali Trump ha espresso gratitudine per il supporto, pur sottolineando che l’operazione è stata esclusivamente opera degli americani e che nessuno sapeva l’obiettivo della missione segreta nel nord della Siria (neanche la speaker della Camera Nancy Pelosi, ad esempio).
Chi era Al Baghdadi
Secondo le fonti più accreditate, Abu Bakr Al Baghdadi era nato in Iraq nel 1971, a Samarra. Laureato in studi islamici, si era formato tra Samarra e Diyala, città al centro della rivolta sunnita contro gli occupanti americani durante la guerra del Golfo. È in questo contesto che Al Baghdadi aveva iniziato la sua folgorante carriera nel mondo del Jihad. Aveva militato inizialmente in AQI (Al Qaeda in Iraq) sotto la guida di Abu Musab Al Zarqawi, prima di ereditarne la leadership. Tra il 2004 e il 2008 era stato rinchiuso nel carcere di Camp Bucca, nel sud iracheno, sotto il rigido controllo degli americani.
Dopo la morte di Al Zarqawi nel 2006 e dopo quella di Abu Ayyub al-Masri nel 2010, Al Baghdadi era stato eletto nuovo leader del gruppo da un Consiglio della Shura, nella provincia di Ninive. Nasceva così ISI (Islamic State in Iraq), gruppo che si sarebbe discostato progressivamente da Al Qaeda, fino a diventarne antagonista. Poi era stata la volta di ISIS (Islamic State in Iraq and Syria) che, sfruttando il malcontento del popolo e riunendo il disciolto esercito iracheno – una delle peggiori decisioni dell’occupazione americana in Iraq – aveva creato un pericoloso esercito di decine di migliaia di uomini sotto il vessillo nero del Jihad.
Dalla proclamazione della nascita del Califfato a Mosul il 29 giugno del 2014, l’ascesa di Al Baghdadi e dell’esercito ai suoi ordini era stata inarrestabile. L’organizzazione era riuscita a controllare vastissime aree in Siria e Iraq, radicandosi anche nella Penisola del Sinai e allargando la propria rete di affiliazioni in tutto il mondo: Libia, Nigeria, Somalia, Filippine, solo per citarne alcune. Mentre in Europa una catena di attentati terroristici a nome dell’ISIS aveva sconvolto la pace sociale, conoscendo il suo apice tra il 201 e il 2016.
L’eredità di Al Baghdadi
Come nella più iconica tradizione islamica, Al Baghdadi aveva creato attorno a sé un’aura leggendaria, tesa a influenzare i fedeli intorno a lui. Del resto, è così che da sempre si porta avanti il progetto antico del Califfato. Con simboli efficaci e una narrazione eroica che fanno da sostrato a una cultura della morte ai più incomprensibile.
In quest’ottica, il Califfo Abu Bakr Al Baghdadi non è stato semplicemente un comandante pianto dai suoi soldati il giorno che è deceduto in battaglia. A loro si è soliti tributare omaggi in piazza, oppure intestare campagne di terrore e operazioni militari, come accaduto ad esempio con Al Shishani, Al Anbari o Al Adnani (i principali comandanti dell’ISIS deceduti durante la guerra civile). Lui, invece, è stato il «Califfo di tutti i musulmani» e, in quanto tale, la guida suprema che aveva nel proprio destino il «martirio». Perciò, qualora fosse stato ucciso, Al Baghdadi non avrebbe fatto altro che soddisfare le aspettative.
La sua morte non è dunque destinata a fiaccare definitivamente la guerriglia dei miliziani del Califfato. Il martirio, per i jihadisti, è nell’ordine delle cose. Esso è purtroppo per loro un’aspirazione e non una sconfitta; un obiettivo nobile da raggiungere, che non ha alcuna accezione negativa. Solo chi ha paura della morte è il vero sconfitto. Molto meglio sarebbe stato prendere il Califfo vivo. Quella sì che sarebbe una sconfitta bruciante, un’umiliazione grandissima per l’intero Stato Islamico. Ma Al Baghdadi questo lo sapeva, e perciò si è fatto esplodere.
Del resto, ne aveva fatta esperienza il generale a stelle e strisce David Petraeus nel 2011. L’allora comandante supremo in Iraq e futuro capo della CIA, dopo che Abu Musab Al Zarqawi, il leader dell’insurrezione irachena contro l’invasore americano, trovò la morte nel 2006 centrato da un drone, dichiarò sconfitto AQI (Al Qaeda in Iraq). Confortato dal risultato, di lì a pochi anni Petraeus si convinse, così come l’intero Pentagono, di aver eliminato il terrorismo dell’Iraq e di poter finalmente lasciare il paese. Gli americani iniziarono così a smobilitare l’esercito, dichiarando nel 2011 «mission accomplished».
Al contrario, invece, la morte di Al Zarqawi – uno dei più importanti leader di Al Qaeda di sempre – aveva libero il campo all’ascesa di Al Baghdadi, segnnado l’inizio di un terrorismo ancora più forte. Un terrorismo che si è fatto Stato nel 2014 e che per tre lunghi anni ha terrorizzato due Paesi interi e creato affiliazioni in tutto il mondo, conoscendo un’espansione senza precedenti per qualsiasi altra formazione terroristica.
Dunque, guai a dare per sconfitto il terrorismo di matrice islamista. Anche se, in ogni caso e senza alcun dubbio, questo è un colpo durissimo al jihadismo internazionale.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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